giovedì 24 dicembre 2015

NETHER LANDS - DAN FOGELBERG



Non ci salviamo dai dischi di Natale. Mai. L'altro giorno, ad esempio, ho avuto una trapanatura di coglioni mentre mi trovavo da Feltrinelli, impegnato nel cercare qualche libro da regalare e regalarmi. In sottofondo è passato tutto, e dico tutto, l'album di canzoni natalizie del sibarita Tony Hadley, già conosciuto come voce degli Spandau Ballet. Per rifarmi da siffatto strazio mi è giunto in soccorso un vecchio album di Dan Fogelberg, "Nether Lands", che voglio regalarvi con la recondita speranza di far cosa gradita.

Non importa cantare le solite tre canzonette tre per entrare in clima natalizio, anzi, " Nether Lands" non ne parla affatto ma, come vedremo, risulta più sincero ed ha il giusto afflato che non l'ennesimo riascolto di "Last Christmas". Fogelberg se ne andò in una casa rifugio in cima alle montagne rocciose in Colorado per realizzare questo capolavoro, trovandosi circondato da un panorama innevato da mozzare il fiato e nella giusta intimità per donarci delle canzoni che nella loro malinconica semplicità, sembrano spremute dal cuore. Come ad esempio la title track che apre l'album, una canzone struggente dall'arrangiamento orchestrale molto vicino alla musica classica, un deciso cambio di marcia rispetto agli altri dischi di Fogelberg. 

Così nelle altre canzoni, dove l'artista americano riesce, con buon eclettismo, a trasfigurare nel pop due tra le più belle ballad di country-rock degli anni settanta come sono "Lesson Learned" e "Once Upon A Time", ma anche il bel fingerpicking della introspettiva "Scarecrow's Dream", struggente e sognante", o la dolce "Dancin' Shoes" in ricordo di una ex fiamma che faceva la ballerina, dove il delicato arpeggio di chitarra e l'accordeon iniziale si evolve in un valzer a metà canzone, e il soft-rock di "Loose Ends", una canzone che meriterebbe di essere passata in radio ogni giorno fino alla fine dei tempi.
Da appassionato di musica brasiliana, Sergio Mendes e Jobim tra i suoi ascolti, Fogelberg ci regala un piccolo gioello di folk-bossa in "Give Me Some Time" mentre la musica classica torna a far capolino in "Sketches", preludio alla finale "False Faces", dall'arrangiamento sinfonico che chiude un disco che aldilà della serenità che musicalmente lascia intendere è prima di tutto un viaggio nell'essere più intimo dell'artista, e qui torniamo nel clima natalizio di cui sopra: un periodo dell'anno in cui, aldilà dei regali e del clima di festa, possa servire come momento di riflessione verso se stessi.

Buon Natale !

venerdì 18 dicembre 2015

THE LAST RECORD ALBUM - LITTLE FEAT


"The Last Record Album," noto comunemente come il "disco del budino," è uno dei dischi dimenticati degli anni settanta realizzato dai Little Feat. Tuttavia, le somiglianze con il dolce raffigurato sulla copertina si fermano qui, poiché gli ingredienti espressi attraverso le note musicali sono molto più numerosi e complessi rispetto a quelli impiegati per creare un semplice budino.

"The Last Record Album" è un ottimo punto di partenza per chi non conosce bene i Little Feat e desidera scoprire quanto fosse talentuosa questa band. Il boogie, il blues e il funk tipici del sud sono ancora presenti, ma a differenza dei lavori precedenti, qui la presenza dominante del leader Lowell George come compositore è meno evidente. Invece, il chitarrista Paul Barrére e il tastierista Bill Payne prendono il controllo e il disco ne beneficia con brani dalle strutture più complesse, abbracciando ibridazioni jazz e funk con groove avvolgenti, come dimostra la magnifica "Day Or Night." Lowell George, che funge anche da produttore dell'album, regala un gioiello del suo repertorio con "Long Distance Love," mentre "All That Your Dream," scritta da Barrére e Payne, è una canzone che manca notevolmente dalle stazioni radio odierne.

Questo è un album che, cari amanti della musica "obsoleta," raggiunge vette di godimento impensabili mentre viaggia con pigra indolenza, mantenendo le giuste distanze dalle mode effimere e dall'hype del momento. Obsoleta o no, questa musica e questi artisti hanno davvero sfidato il trascorrere del tempo.


venerdì 4 dicembre 2015

COOL UNCLE - BOBBY CALDWELL & JACK SPLASH


Questa storia ha origine da uno scambio di messaggi su Facebook tra Jack Splash e Bobby Caldwell: da un lato, Jack, un rinomato produttore nel mondo dell'hip-hop e dell'R'n'B con collaborazioni illustri come Kendrick Lamar e John Legend; dall'altro, Bobby, un cantante di culto sospeso tra il soul e la West Coast. Dalla semplice conversazione su Facebook alla decisione di collaborare è stato un passo breve. Inizialmente, hanno scelto il nome d'arte "Cool Uncle." Una volta definite le linee guida del progetto, il risultato di queste due menti brillanti è stato rilasciato il 15 novembre.

La loro intelligenza e maestria si riscontrano nel fatto che non hanno stravolto la loro identità artistica. Fondamentalmente, l'album si muove su territori musicali familiari. La produzione di Splash costruisce un tappeto sonoro abilmente intrecciato tra tradizione e innovazione, mentre la voce bellissima e raffinata di Caldwell, nonostante i suoi sessantaquattro anni, mette a dura prova i giovani talenti. Il risultato sono canzoni che suonano familiari all'ascolto, arricchite dalla loro esplorazione tra il blue-eyed soul, la West Coast pop e il smooth funk. Le voci di Mayer Hawthorn in "Game Over," Deniece Williams ed Eric Biddines in "Breaking Up," Cee Lo Green in "Mercy," Jessie Ware in "Break Away," e infine Jd8 nella conclusiva "Outro" rendono l'album eclettico e avvincente.

Cool Uncle rappresenta una sorta di comfort per gli amanti delle sonorità Yacht Rock e del soul melodico. È il tipo di disco che tutti sperano di trovare sotto l'albero, con una qualità costante nelle canzoni contenute, e la speranza che un artista del calibro di Bobby Caldwell possa finalmente ottenere la visibilità che merita. Nonostante una carriera di trentasei anni costellata da successi, con picchi di eccellenza nei suoi primi lavori, il cantante americano non ha ricevuto il riconoscimento che gli spetta nel mondo del soul bianco, tranne che per un ristretto numero di appassionati. Vedremo se Jack Splash, con questo album, riuscirà a convincere anche gli scettici.


venerdì 27 novembre 2015

WEST END COAST - YOUNG GUN SILVER FOX



Buone notizie per gli amanti del Yacht Rock: il genere gode di ottima salute e è ben lontano dal declino, come dimostra il primo album a lunga distanza degli Young Gun Silver Fox, il cui acronimo appartiene a Andy Platts e Shawn Lee, i due talentuosi musicisti dietro a questo progetto. "West End Coast" è il loro album di debutto, pubblicato il 15 novembre dalla casa discografica tedesca Legere Recordings, e ho avuto il piacere di scoprirlo grazie alla diligente Willwork4funk di Milano.

Platts e Lee non sono certo sconosciuti, anzi: Platts è il leader, compositore e produttore degli Mama's Gun, una band dedicata a rivisitare il pop sofisticato degli anni '70. Lee è il creatore di Shawn Lee's Ping Pong Orchestra, una band strumentale le cui tracce sonore potreste aver sentito in serie TV come Lost e Desperate Housewives, o anche nei film, come Oceans 13, solo per citarne uno, oltre alle apparizioni nelle pubblicità, come BMW e Jaguar.

"West End Coast" è un viaggio nel cuore della musica Yacht Rock, con tutti i suoi sviluppi e sfaccettature nel corso degli anni. Si apre con "You Can Feel It," il singolo estratto dall'album, che immediatamente ci trasporta nell'atmosfera delle armonie vocali e del pop, un po' alla America, in particolare ai primi anni, quelli di "Homecoming." Anche il secondo brano, "Emilia," prosegue in questa direzione, anche se le voci cominciano ad avere un sapore alla Doobie Brothers, con un intrigante assolo di chitarra all'inizio e nel mezzo della canzone. Con il terzo brano, "Better," il sound si sposta verso influenze giamaicane, evolvendo in una ballata soul che richiama alla mente i misconosciuti Faragher Brothers.

"Distant Between Us" è uno dei momenti culminanti dell'album, una perfetta sintesi di melodia pop con un'introduzione che ricorda gli Player, vocalizzata e con un ritornello tipico del blue-eyed soul alla Hall & Oates, per poi sfociare nel bridge orchestrale stile Philly Sound, semplicemente splendida. La successiva "See Me Slumber" è un'altra perla, con atmosfere alla Doobie Brothers, ma immaginatele come se la band di Michael McDonald fosse britannica invece che americana, un brillante connubio tra pop britannico e soul americano.

Il lato B dell'album si apre con il pop dalle sfumature orientali di "In My Pocket," che ci conduce direttamente al soul funk bianco di "So Bad," un altro pezzo imprescindibile dell'album con influenze che richiamano gli AWB e gli Attitude. "Saturday" ci introduce nel mondo del Michael McDonald post-Doobie Brothers, una canzone con un ritmo incalzante e un refrain che si incolla alla mente. "Spiral," la penultima traccia dell'album, ci riporta all'incantevole pop che dominava le FM radio americane alla fine degli anni '70, preparandoci per il gran finale: "Long Way Back," una ballata malinconica che improvvisamente prende il volo, accompagnata da una chitarra in stile Isley Brothers, portandoci verso le vette del soul più trascendentale.

È inutile dire che, per quanto mi riguarda, questo è uno dei dischi dell'anno, un'esperienza di ascolto estremamente piacevole, che ho abbracciato completamente e dalla quale non riesco a staccarmi.



venerdì 20 novembre 2015

STOP TIME - JON REGEN



In quanto amante delle arti visive, ho sempre ritenuto che le copertine degli album siano parte integrante del prodotto, e provo un sottile piacere quando queste riflettono il contenuto musicale. Recentemente ho fatto questa esperienza con il nuovo album di Jon Regen, "Stop Time". La copertina raffigura una stanza spoglia con un divano in stile anni '60, dove l'artista è seduto in completo scuro e cravatta mentre sfoglia un giornale. Accanto c'è un tavolino di modernariato con una tazza da caffè e una bellissima caffettiera Moka in mostra.

Potremmo quasi utilizzare questi oggetti per definire la musica di Jon Regen, ma sarebbe un'analisi troppo semplice. Prima di tutto, è importante ricordare che Regen è un pianista jazz, un pupillo di Kenny Barron, e nella sua carriera ha collaborato con musicisti come Kyle Eastwood e Little Jimmy Scott. "Stop Time" è il suo terzo album da solista, prodotto dal talentuoso Michael Froom, che riesce abilmente a catturare l'essenza del pianista e cantante americano senza invadere il suo spazio.

L'essenza musicale di cui parlavo si riflette anche nella formazione del trio di Regen: pianoforte, basso e batteria (con Davey Faragher e Pete Thomas, noti per essere membri della band di Elvis Costello, The Imposters), con una spruzzata di chitarra elettrica in un paio di brani. Le canzoni raramente superano i quattro minuti, seguendo uno stile essenziale che a tratti richiama il miglior Randy Newman e il sottovalutato Bill Quateman. Tuttavia, questa essenza non manca del calore soulful che permea la scrittura pop-jazz di Regen, fortunatamente priva di eccessi autoreferenziali.

"Stop Time," uscito lo scorso giugno, è un album che si è sedimentato nella mia playlist come quei vini che necessitano di un po' di riposo per rivelare tutta la loro brillantezza e complessità. Al primo ascolto, potrebbe sembrare quasi indifferente, ma col passare del tempo diventa un appuntamento quasi quotidiano. Come un vino robusto che accoglie con il suo bouquet di profumi, una buona morbidezza al palato e lascia una sensazione di pulizia e chiarezza, così sono le canzoni di questo album.

I momenti salienti includono "Run to Me," "Stop Time," e "Annie," dove la scrittura musicale meticolosa si combina con l'eccezionale vocalità di Regen. Sono melodie belle, canzoni semplici e raffinate, un po' fuori moda ma proprio per questo capaci di accompagnare perfettamente una serata in casa con le persone care.




venerdì 13 novembre 2015

WHERE OR WHEN


"Where or When" è universalmente riconosciuta come una delle canzoni più belle di tutti i tempi. Questo brano fa parte del songbook di Rodgers e Hart ed è stato eseguito per la prima volta a New York nel 1937, nel musical "Babes In Arms". Questo musical, diviso in due atti, racconta la storia di un ragazzo e di una ragazza di vent'anni e dei loro amici, che cercano di mettere in scena uno spettacolo teatrale per evitare il lavoro forzato in una "work farm" locale. Questa situazione è dovuta al fatto che i loro genitori, attori di vaudeville, li hanno abbandonati cercando fortuna come artisti di strada durante la grande depressione americana.

La versione originale del musical era caratterizzata da forti tematiche politiche, tra cui riferimenti a Nietzsche, discriminazione razziale e personaggi con idee comuniste. "Babes in Arms" è stato rappresentato dal 14 aprile all'18 dicembre 1937. Nel 1939, è stato adattato in un film con Judy Garland e Mickey Rooney, sebbene la trama fosse notevolmente modificata, mantenendo solo l'elemento principale e due delle cinque canzoni originali. Nel 1959, George Oppenheimer ha realizzato una versione depoliticizzata del musical, adeguata all'era del maccartismo, modificando la sequenza delle canzoni e l'orchestrazione. Purtroppo, questa versione è diventata la più nota nel tempo.

Nonostante nel musical siano presenti altre canzoni di grande successo come "My Funny Valentine" e "The Lady is A Tramp", "Where or When" è stata subito acclamata dal pubblico. Questa ballata struggente è stata descritta dal critico Richard Corliss del Time come una canzone che evoca "uno stato di estasi malinconica che fonde passato e presente, il sognatore e il sogno, l'amante e tutti i suoi amori reali e immaginari". La melodia dolce di Rodgers e Hart ha conquistato il cuore del pubblico, e la versione cantata da Peggy Lee con l'accompagnamento al clarinetto di Benny Goodman, registrata la vigilia di Natale del 1941, è stata considerata da Benjamin Schwarz, critico musicale, come una delle versioni jazz più commoventi mai realizzate. Questa versione rifletteva le ansie del momento storico, con l'America che si preparava per la guerra.

"Where or When" è stata reinterpretata da numerosi artisti, spaziando dal doo-wop di Dion and The Belmonts, alla versione italiana del Trio Lescano con l'orchestra Cetra di Pippo Barzizza, agli "standard" di Ella Fitzgerald e Frank Sinatra, al soul delle Supremes, alla versione incisiva di Jane Birkin, al jazz di Sonny Rollins, fino alla versione bossa nova di Diana Krall.

 



venerdì 6 novembre 2015

ERBE SELVATICHE - OSCAR ROCCHI E IL SUO MODERN SOUND


Nel 1975, l'anno in cui è stato pubblicato "Erbe Selvatiche", Internet non era nemmeno nei sogni più audaci degli scrittori di fantascienza. Ciò che aveva in comune allora e oggi era la difficoltà nel trovare dischi di questo genere. Questo perché gli album di musica "library", creati come commento per programmi televisivi, documentari e altro, non erano concepiti per la vendita e spesso rimanevano invisibili. Oggi la situazione è leggermente migliorata grazie al lavoro di piccole e intelligenti etichette che ristampano le opere più significative, ma essendo realtà di nicchia, anche queste edizioni si esauriscono rapidamente. Dobbiamo quindi riconoscere il merito della rete, che, grazie alla comunità degli appassionati, mette a disposizione di tutti la possibilità di ascoltare questi album. La peculiarità e la bellezza di questi lavori risiede nell'ascoltare musicisti che, pur operando entro i limiti imposti dai committenti, lavorano in totale libertà, senza cedere alla tentazione di creare successi da classifica.

Chissà se Oscar Rocchi, il pianista e compositore di "Erbe Selvatiche", avesse previsto che il suo disco sarebbe diventato nel tempo uno dei pochi esempi in Italia di musica funk sapientemente mescolata con il soul e il jazz. Sulla rete si trova poco su Oscar Rocchi. Da quanto ho potuto apprendere, è stato un musicista di session con alcuni dei nomi più noti della musica italiana, come Umberto Tozzi e Marcella Bella. Tuttavia, ha anche collaborato con artisti come Giorgio Gaber e De André, e insieme a Tullio De Piscopo è stato parte integrante dell'album "Metamorphosis" del batterista napoletano, pubblicato nel 1981.

Tornando a "Erbe Selvatiche", impressiona il groove travolgente che scorre attraverso le tracce del vinile, un elemento raro nelle produzioni musicali italiane. Rocchi dimostra grande abilità con le sue tastiere, tra cui il Fender Rhodes e l'Arp, e è accompagnato dalla chitarra fuzz di Andrea Verardi, dai fiati, tra cui il sax tenore e il flauto di Giancarlo Barigozzi (si dice che l'album sia stato registrato durante le session di un altro capolavoro della library music, "Woman's Colours" del Barigozzi Group), oltre al basso elettrico preciso e incisivo di Gigi Cappellotto, che si integra perfettamente con la batteria di Andrea Surdi. Non tutti i brani sono dominati dal funk; in alcune tracce si sperimenta con ballate cinematiche in linea con la melodia italiana, che, seppur apprezzabili, non possono competere con l'energia degli altri pezzi.

Erbe selvatiche è stato ristampato recentemente in vinile, chi volesse accaparrarsi il disco originale, si prepari a firmare un assegno da 500 dollari.




venerdì 30 ottobre 2015

TIME HAVE CHANGED - THE IMPRESSIONS


Quando si menziona "The Impressions," il pensiero va immediatamente a Curtis Mayfield, ma anche a Leroy Hutson, che lo ha sostituito come leader del gruppo. Tuttavia, prima di esaminare il contributo di Hutson alla band di Chicago, facciamo un passo indietro. È importante ricordare che "The Impressions" sono stati un monumento della musica soul. Inizialmente guidati da Jerry Butler, sono poi passati sotto la guida del leggendario Curtis Mayfield quando Butler ha intrapreso la carriera solista. Le origini della band risalgono al 1957, quando erano conosciuti come "The Roosters" e facevano doo-wop. Successivamente, divennero "Jerry Butler And The Impressions" prima di adottare la denominazione definitiva nel 1961. Brani come "For Your Precious Love," "Gipsy Woman," "It’s All Right," "Keep On Pushing" e "People Get Ready," scritti da Mayfield, li hanno resi un punto di riferimento nella musica afroamericana e hanno ispirato artisti che si sono dedicati allo ska, al rocksteady e persino al grande Bob Marley, che ha riconosciuto l'influenza della band nella sua musica e ha modellato le armonie vocali dei Wailers sullo stile degli Impressions.

Curtis Mayfield è rimasto con la band fino al 1970, dopodiché ha intrapreso una carriera solista di grande successo, con "Superfly" come uno dei suoi primi capolavori. Tuttavia, Mayfield ha continuato a scrivere per la band, e quando Hutson ha assunto il ruolo di leader nel 1971, un nuovo album era già pronto: "Times Have Changed" del 1972. Questo album, sebbene sia stato un po' sfortunato in termini di vendite, è straordinario e conserva ancora il suono distintivo di Mayfield. Infatti, Mayfield ha scritto sette delle otto canzoni presenti nell'album ed è stato anche accreditato nella produzione. Hutson ha contribuito con la sua voce insieme a Fred Cash e Sam Gooden, gli altri membri degli Impressions, e ha arrangiato "Inner City Blues" di Marvin Gaye, rendendola più intensa e funky rispetto all'originale. "Times Have Changed" affronta temi sociali e politici dell'epoca, forse uno dei motivi per cui non ha raggiunto un grande successo di vendite, il che ha portato Hutson a lasciare il gruppo solo due anni dopo essere diventato il leader.

L'album si apre con l'urgente e potente "Stop The War," cantata da Fred Cash, con il distintivo tocco chitarristico di Mayfield. Poi c'è la title track, un brano elegante che si muove con grazia. Successivamente, arriva la già menzionata "Inner City Blues," con un ritmo diverso rispetto all'originale di Gaye, rendendola più cruda nonostante la presenza di archi. "Our Love Goes On And On" ricorda il talento di Mayfield nella composizione di musiche per film ed è stata in seguito donata a Gladys Knight per la colonna sonora di "Claudine." "Potent Love" è il picco dell'album, un brano che inizia con percussioni e si sviluppa con basso, archi e la caratteristica chitarra wah-wah, con il falsetto di Hutson sostenuto dagli altri cantanti. È una canzone che sembra una jam infinita che cattura l'ascoltatore. "I Need To Belong To Someone" è una classica ballad in stile Motown, simile a "People Get Ready," e la seguente "This Love For Real" continua sulla stessa linea, con la voce distintiva di Hutson. Infine, la traccia finale, "Love Me," sarebbe perfetta per una serata Northern Soul, con il suo ritmo incalzante e la voce implorante del cantante, enfatizzata dai fiati e dai violini. In conclusione, "Times Have Changed" è un capolavoro che merita di essere riscoperto.


venerdì 23 ottobre 2015

SKINNY BOY - ROBERT LAMM




All'uscita del suo primo album solista, "Skinny Boy", Robert Lamm era già uno di quei musicisti che avrebbero potuto vivere di rendita. Era un membro della band Chicago, a lui dobbiamo capolavori della musica pop crossover come "Saturday In The Park" e "25 or 6 to 4". Lamm era un artista dotato di una scrittura sopraffina, e il suo album del 1974 ne è una prova tangibile. Forse Lamm aveva il desiderio di dimostrare di poter avere successo anche da solo, ma come vedremo, le cose non andarono esattamente così.

"Skinny Boy" è notevole innanzitutto per l'assenza dei fiati, una caratteristica distintiva degli Chicago. Inoltre, si distingue per la sua scrittura musicale policroma, che attinge da vari generi musicali. Questo era una rarità all'epoca ma abbastanza comune in quegli anni. Il brano d'apertura dell'album, "Temporary Jones," è l'unico non scritto interamente da Lamm; qui collabora con il grande Bob Russell, che aveva lavorato con artisti come Duke Ellington e Billie Holiday. La canzone colpisce per l'eleganza della scrittura musicale e una produzione prevalentemente basata sul pianoforte suonato da Lamm, basso (Terry Kath dei Chicago contribuisce su tutti i brani), batteria ed archi.

La traccia successiva, "Love Song," presenta influenze soul e vede Lamm prendere spunto dalla lezione di Gino Vannelli, creando una canzone in cui il Fender Rhodes e il basso sono in primo piano, con un bel contributo di chitarra acustica da parte di Kath. Anche Paul McCartney, nel suo periodo post-Beatles, sembra essere una delle influenze di Lamm, come dimostra il brano successivo, "Crazy Way to Spend a Year," una ballata con arrangiamenti ricchi di archi che ricorda il sound di McCartney durante la sua esperienza con i Wings.

Il soul che flirta con il gospel è un elemento distintivo di "Skinny Boy," in cui la voce e il piano elettrico di Lamm sono supportati dai cori delle Pointer Sisters. Questa traccia verrà successivamente riproposta con l'aggiunta dei fiati nell'album "Chicago VII." Con "One Step Forward Two Steps Back" e "Someday I'm Gonna Go," ritorniamo in territorio post-Beatles, con entrambe le canzoni caratterizzate da arrangiamenti essenziali ma efficaci.

"Fireplace and Ivy," situata tra le due tracce precedenti, è invece una ballad che inizia in modo lento ma si sviluppa in modo notevole grazie all'aggiunta degli archi. "A Lifetime We" riporta il soul al centro dell'attenzione, con una sensazione cinematografica e un tocco di jazz. Il rock blues di "City Living" è un brano apprezzabile, seppur non rivoluzionario. Chiudiamo con "Crazy Brother John," una ballad mid-tempo che oscilla tra momenti tranquilli e l'uso degli archi per creare dinamismo.

In definitiva, "Skinny Boy" è un album eclettico che abbraccia una vasta gamma di generi musicali. Nonostante il suo insuccesso commerciale all'epoca, il disco è ora una rarità e le copie in vendita raggiungono i 350 euro. Questo album segnò una pausa nella carriera solista di Lamm, che avrebbe continuato a contribuire alla musica con Chicago e avrebbe fatto ritorno alla sua carriera da solista circa vent'anni dopo. Ma questa è un'altra storia.




venerdì 16 ottobre 2015

OFF THE WALL - MICHAEL JACKSON


Se per la maggior parte degli appassionati di musica soul e non solo, "Thriller" è considerato il capolavoro di Michael Jackson, per me "Off The Wall" rappresenta il punto massimo raggiunto dall'artista afroamericano. Benché sia un disco stra-venduto, trovo "Thriller" meno spontaneo del precedente; forse il suo grande successo è in parte dovuto ai video, che erano davvero innovativi e accompagnarono le canzoni. "Off The Wall," invece, è un'opera diversa, prodotta da un Quincy Jones in stato di grazia ed è il primo album solista di Jackson siglato per la Epic Records, già affrancatosi dai fratelli e dalla Motown, destinato a diventare una stella di prima grandezza.

Vi confesso che un brano bello, fresco e sfrontato come “Don't Stop Till You Get Enough,” messo all'apertura dell'album, ho tentato invano nei anni seguenti di ricercarne il mood fra i più svariati artisti: è una canzone irripetibile, costruita come un ponte che unisce i vari aspetti della musica black, disco, soul e funk, uniti insieme per creare qualcosa di nuovo e mai ascoltato fino ad allora. Del resto, lo stile del disco è ben diverso dalle produzioni precedenti di Jackson; quindi niente più sonorità Motown ma uno sguardo aperto a 360 gradi sul mondo del soul, un album a suo modo visionario e coraggioso, che mantiene tutta la sua freschezza a distanza di trentacinque anni dalla sua uscita. Insomma, tutto il Michael Jackson successivo parte da qui e qui ci sono tutte le intuizioni che poi sfrutterà negli anni a venire.

Il resto dell’album riserva sorprese ad ogni ascolto. Se da un lato abbiamo brani che funzionano bene per il dancefloor, come “Working Day And Night” e “Get On The Floor,” dall'altro sono i brani mid-tempo ad esaltare: “Rock With You” e “Off The Wall,” ambedue scritti da Rod Temperton, sono due gioielli tagliati su misura per la voce di Michael e restano a tutt’oggi ineguagliati e ineguagliabili. Burt Bacharach, insieme a Carol Bayer Sager, ci regalano invece un brano pop semplice e cristallino come loro usavano fare: “It’s The Falling In Love.” Il piacere sarà ricambiato da Jackson, durante una pausa delle registrazioni di “Off The Wall,” partecipando in duetto con la Sager in una canzone, “Just Friends,” dal suo album solista “Sometimes Late At Night,” divenuto nel tempo oggetto di culto. “Girlfriend” è il brano che Paul Mc Cartney regalò a Jackson e che sancì l’inizio della loro collaborazione. Stevie Wonder scrisse l’ennesimo capolavoro della sua carriera, “I Can’t Help It,” brano slow dove magicamente si uniscono il pop con il soul più morbido. La sensazione riascoltando il disco a distanza di anni è quella di un Jackson in pace con se stesso come mai prima e di un incastro riuscito di persone che, caso volle, si trovassero, chi più chi meno, nel momento migliore del loro percorso artistico.


venerdì 9 ottobre 2015

MAX MEAZZA - CHARLIE PARKER LOVES ME


Di Max Meazza ricordo che ne sentii parlare all'inizio degli anni ottanta. Avevo iniziato il mio approccio con la musica della west coast americana con i dischi di Michael Franks, allora i più facili da trovare, e lessi una recensione di "Shaving The Car," il primo album solista di Meazza, dove veniva accostato al musicista americano. A torto, con il senno di poi, o forse il recensore non aveva ascoltato altro, perché se deve esserci un'affinità, credo che si debba trovare più con Marc Jordan che con Franks. Incuriosito, cercai ovunque, leggasi i negozi di dischi fiorentini, il disco di Max, con il risultato di farmi venire i calli ai piedi e di restare con la bisaccia vuota. Solo diversi anni dopo, presso il negozio oggi chiuso di Nannucci, riuscii a procurarmi a prezzo di saldo "Shaving the Car" insieme a "Personal Exile," il secondo album solista del nostro.

Sugli esili dei musicisti della west coast (da parte dei discografici in primis) ci sarebbe da scrivere un tomo, ma quando pensi che non faranno più ritorno, arriva la notizia della loro presenza grazie a un nuovo disco. Max Meazza, bluesman di razza (la sua carriera inizia con la band dei Pueblo, il cui primo album alla fine degli anni '70 ebbe un buon successo di vendite e di esposizione radiofonica), è uno dei pochi qui in Italia che diffonde il verbo della west coast, ed è ritornato dieci anni dopo l'ultima uscita, con "Charlie Parker Loves Me," un album autoprodotto grazie al progetto "Musicraiser," che vede la partecipazione del grande Marc Jordan, nel bellissimo brano omonimo firmato dall'artista americano che apre il disco.

Questo lavoro sorprende per la freschezza e la lucidità con cui Meazza espone tutta la sua arte, fatta di intrecci sonori in cui il blues rimane comunque sottotraccia, ben miscelato con quegli ingredienti che vanno dal blue-eyed soul fino al pop jazzato, che hanno dato peculiarità al genere. L'album mi riporta alle atmosfere che artisti come Mark & Almond e il Mark Murphy di fine anni '60 riuscivano a creare, ma sarebbe un errore dire che il lavoro si limita a questo. Meazza riesce a sorprendere anche nei brani di sua composizione, dove si viaggia sul filo del disincanto e di una latente malinconia: "Lost in L.A.," "Neon Angel" e la bellissima "Laurie Bird" (solo voce, chitarra acustica ed elettrica, più basso, con il violino di Giulia Nuti a ricamare la storia di una ragazza perduta) ne sono gli esempi più calzanti.

C'è spazio anche per una bella cover di "Solid Air" di John Martyn, altro artista molto amato da Meazza, così come per altri tre brani da ascoltarsi immaginando di trovarsi sulla spiaggia di Venice Beach al tramonto: "A Face in The Crowd," "Too Late For My Heart" e "Forward Motion," quest'ultimo con alla voce il suo autore, Mark Winkler. Echi di JJ Cale si trovano nel brano "Black and White Generation," un bel blues rock che richiama le radici di Meazza. Ancora John Martyn in "She's a Lover," una cover virata in blue-eyed soul con una chitarra wah-wah che aggiunge una nota di funk al brano e l'onnipresente Fender Rhodes (che Dio benedica chi lo ha inventato) a dare corposità al tutto.

Se la musica west coast è anche uno stato dell'anima prima che un genere musicale, "Charlie Parker Loves Me" può essere considerato chiarificativo in tal senso: le immagini che riesce a creare, che sia trovandosi su una spiaggia californiana nell'ora che precede la notte, che viaggiando per le strade blu della provincia americana, o che ci si trovi in una vecchia stazione della Greyhound, sono tutte nella testa e non c'è bisogno d'altro.

Una postilla obbligatoria per dare il giusto risalto ai musicisti che hanno suonato in questo album, precisi e puntuali nella costruzione di un suono elegante e raffinato come richiede il genere, ma senza cadere in un tecnicismo fine a se stesso: qui tutti contribuiscono a dare vita ai desiderata di Meazza, creando una trama sonora che riesce ad emozionare.

Buon ascolto!



venerdì 2 ottobre 2015

SIMI STONE - SIMI STONE


A otto anni, Simi Stone cominciò a creare cassette musicali in modo indipendente. Ma, anziché semplicemente copiare dischi per gli amici, suonava veramente. Non so cosa sia successo in seguito, ma questo dettaglio potrebbe farci capire che il suo destino musicale era già scritto nel suo DNA. Immaginate quante persone appassionate di musica abbiano provato a fare lo stesso? Io, per esempio, passavo il tempo a usare mestoli come tamburi o a manipolare la radio e il registratore a cassette per creare suoni strani. Poi ho capito che non avevo il talento per suonare uno strumento e mi sono dedicato all'ascolto di musicisti più esperti di me. Questo amore per la musica è rimasto con me fino ad oggi.

Simi Stone, figlia di una madre hippy e di un padre giamaicano, è nata a Woodstock, la stessa città famosa per il festival dedicato alla pace, all'amore e alla musica negli anni '60. Potresti immaginartela vestita con abiti hippy, indossando collane di perline e suonando canzoni pacifiste con bonghi e campanellini, come un vero prodotto dei tardi anni '60. La sua musica è fortemente influenzata dagli anni '60, ma da quelli che precedono l'"estate dell'amore". Si ispira alla musica soul di Detroit, in particolare alla Motown, e nel suo primo album, pubblicato lo scorso luglio per la Reveal Records, troverai anche elementi di pop accattivante, il ritmo scattante del Northern Soul per farvi ballare, una spruzzata di blues e persino un genere chiamato "Mountain Motown", coniato dalla stessa Simi per descrivere il suo stile. Ma ciò che risalta di più è la sua voce, che è chiara, cristallina, triste, innocente e intrigante allo stesso tempo.

Simi Stone non è una novità nel mondo della musica. In passato ha fatto parte del movimento Afro-Punk e ha suonato rock 'n' roll in una band chiamata The Suffrajet, ottenendo anche un notevole successo di critica. Ha condiviso il palco con artisti del calibro di Urge Overkill, Eagles of Death Metal e persino i grandissimi Cheap Trick. In Europa, ha suonato con Simone Felice e Bobby Burke, noti come The Duke and The King, una band che mescolava soul e funk con un tocco di "freakketonismo". Per fortuna, qualcuno ha riconosciuto il suo talento e l'ha incoraggiata a fare un album da solista.

Questo album è il risultato della collaborazione con David Baron, il suo partner musicale, ed è il suo primo album a nome suo, come se fosse predestinata a realizzare grandi cose. Ha coinvolto un gruppo di musicisti eccezionali, da Natalie Merchant, autrice della splendida "Don't Come Back", a Zachary Alford, Sara Lee e Gail Ann Dorsey. È un album fresco ed elegante fin dalla copertina, con canzoni che raramente superano i tre minuti, ma che sono essenziali e senza fronzoli. Simi Stone mira dritto al vostro cuore, e sono certo che vi conquisterà presto.



lunedì 21 settembre 2015

BLOOD - LIANNE LA HAVAS


Come già menzionato nel post precedente, riguardo al nuovo album di Lianne La Havas, "Blood", è possibile che non ne abbiate sentito parlare molto o addirittura nulla. Tuttavia, la situazione è molto diversa nel Regno Unito, il paese natale della cantante, dove l'album ha ottenuto risultati notevoli anche in termini di vendite.

Giunta al suo secondo lavoro, la talentuosa Lianne affina e supera quanto di buono aveva realizzato nel suo album precedente. Mentre nel primo album predominavano le canzoni in formato acustico, qui assistiamo a una decisa evoluzione verso sonorità molto più variegate (in tutte le tracce c'è la firma della cantante inglese). Non si tratta solo di r'n'b o nu soul, ma attraverso questi generi si raggiunge una forma di trascendenza che ci conduce direttamente nei territori più nobili della musica pop. Tuttavia, non c'è motivo di preoccuparsi, poiché l'album rimane ancorato a forme sonore accessibili a tutti, persino quando si avventura nel territorio del jazz.

A parte il primo singolo pubblicato, "Unstoppable", che è la traccia più orecchiabile dell'album, nelle canzoni successive emerge il lato più intimo della sua musica. Brani come "Tokyo" e "Wonderful" ne sono esempi rilevanti e i punti salienti dell'intero disco. In altri momenti, Lianne si spinge verso territori vicini al rock più robusto, come dimostrano gli incalzanti assoli di chitarra che troviamo in "Never Get Enough". Il jazz fa capolino in "Green and Gold", richiamando suggestioni di epoche passate. Ancora jazz nel brano successivo, "What You Want Do", con un tocco di doo-wop (a proposito, quando avremo una riabilitazione di questo genere così bello ma spesso trascurato?).

Ciò che rende questo album davvero eccellente e uno dei lavori che ho maggiormente apprezzato nel 2015 è la voce di Lianne La Havas, ulteriormente migliorata e in grado di suscitare emozioni come poche altre. La sua voce è caratterizzata da una raffinatezza che sfiora la sofisticazione, ma sa anche essere ruvida e graffiante quando necessario.

Ribadisco, è un grande album che merita sicuramente di essere ascoltato.



lunedì 14 settembre 2015

WOMAN - JILL SCOTT


Ehi, amici della musica! Come state? Avete trascorso un'estate fantastica? Siete stufi delle ultime performance dei nostri cantanti-tuttologi e dei cosiddetti "profeti del nulla" noti come The Kolors? Bene, è giunto il momento di immergersi in un album che, nel nostro bel paese, è passato inosservato come un tulipano in Olanda. Peccato, perché questo lavoro merita attenzione ed è semplicemente stupendo. Quindi, se preferite la solita banalità, il problema è vostro.

Jill Scott è tornata con "Woman," un album che ristabilisce l'ordine delle cose nel mondo della musica soul. Non aspettatevi rivoluzioni qui, quelle sono già accadute (anche se non si sa mai cosa riserva il futuro). Questa è semplicemente ottima musica, e questo è più che sufficiente.

Con il suo quinto album, la signora Scott ha anche cambiato casa discografica, portando la sua etichetta Blue Bells dalla Warner Bros. alla Atlantic. Questo cambiamento sembra averle giovato, poiché "Woman," come ho detto, è il suo lavoro più appassionato fino ad oggi. Se da un lato l'r'n'b rappresenta la firma stilistica della cantante, dall'altro notiamo un leggero (ma molto leggero, diciamocelo) avvicinamento al soul dei giorni d'oro di Philadelphia, grazie a due brani prodotti dal figlio di Dexter Wansel, Andrew. Inoltre, il disco abbraccia il blues in modo coraggioso e costante.

Per quanto riguarda i testi, ci troviamo nel territorio del desiderio e della vulnerabilità del mondo femminile contemporaneo, affrontando tutto ciò che spaventa l'essere umano dall'altra parte del genere. E così come la sua scrittura musicale è sostanziale, siamo ben lontani dalle solite canzoncine zuccherine sul cuore e sull'amore. "Woman" è, tutto sommato, un album riflessivo, con tonalità non troppo enfatiche che potrebbero deludere i vecchi fan di Scott, ma personalmente ho apprezzato questa virata verso sonorità più leggere.

Jill Scott ha avuto il coraggio di produrre un album lontano dal pop mainstream che domina la scena musicale e ha creato un perfetto ritratto del mondo del soul contemporaneo, sperimentando nuovi stili mentre getta uno sguardo al passato.

Quindi, lasciate perdere le banalità e immergetevi in questo lavoro con il piede giusto.


giovedì 30 luglio 2015

THE MADS IN SOUL -THE MADS


I tre colpi di pistola immaginari che campeggiano sulla copertina del nuovo EP degli The Mads rappresentano in modo chiaro ciò che troverete all'interno di questo lavoro. Si tratta di tre cover di altrettanti classici della musica soul: "In The Midnight Hour," "Knock On Wood," e "Harlem Shuffle." Queste interpretazioni sono essenziali, senza fronzoli, come tre colpi alla mascella sferrati da Muhammad Ali o come le incursioni determinate della squadra del Milwall FC.

Questi ragazzi sanno suonare bene, e da quando sono tornati sulla scena musicale cittadina, stanno mettendo a punto ciò che il modernismo ha ancora da dire nei nostri giorni. Non stiamo parlando di una moda passeggera imposta dai media, ma di un vero e proprio stile di vita. Mentre attendiamo con impazienza il loro primo album completo, possiamo deliziarci con questi brani, come un antipasto di ciò che ci riserveranno in futuro. Ciò dimostra che l'essenza della musica soul può essere ritrovata anche in una crew di chitarra, basso e batteria, senza bisogno di eccessi o delle smancerie di chi si crede l'erede di modelli insuperabili.

Sincerità e stile autentico, quello genuino delle strade, sono gli elementi che troverete in queste tracce, e vi assicuro che non si tratta solo di parole vuote.

Potete scaricare i brani in free download su Bandcamp e su Soundcloud


venerdì 10 luglio 2015

TIME IS SLIPPING AWAY - DEXTER WANSEL


Dexter Wansel è indubbiamente un musicista che non ha mai fatto mancare la sua creatività lungo il corso della sua carriera. I suoi album da solista, pubblicati con la Philadelphia International dal 1975 al 1979, ne sono una brillante dimostrazione. Ognuno di questi dischi si avvicina in modo notevole al suono di Philadelphia, senza però esagerare, e conserva una forte impronta personale che lo rende subito riconoscibile.

Wansel, tastierista, produttore, compositore e cantante, ha pubblicato il suo ultimo album per l'etichetta di Philadelphia nel 1979, e "Time Is SlippinG Away" è un esempio perfetto di quanto appena detto. Nel corso del tempo, questo album è diventato una sorta di "classico minore" nel mondo della musica soul. Pur non essendo entrato nei libri di storia come un capolavoro, al suo interno troverete brani che, se ascoltati oggi, potrebbero tranquillamente reggere il confronto con lavori più acclamati del genere.

Il brano che apre l'album, "We'll Never Forget (My Favorite Disco)," è un omaggio di Wansel alla disco music e al suono degli Chic. È un mix di disco con elementi jazz-funk ed è il brano che ha ottenuto maggior successo, suonato e ballato nelle discoteche dell'epoca. Il brano successivo, "The Sweetest Pain," interpretato da Brandi Wells (nel disco accreditata come Terri Wells), è il mio preferito e sembra anticipare le suggestioni smooth dei Soul to Soul di ben dieci anni dopo. Basta ascoltare "Keep On Movin'" per fare un confronto. A tal proposito, ricordo anche una cover realizzata dagli inglesi "Loose Ends" negli anni ottanta.

Proseguiamo con "Funk Attack," che dimostra la versatilità di Wansel; se non fosse stato attribuito al musicista di Philadelphia, potremmo confonderlo con un brano dei Parliament. La title track e "New Beginning" sono invece due soul ballad, la prima rappresenta un classico esempio di romanticismo musicale, cantata dallo stesso Wansel, senza cadere nel sentimentalismo. La seconda è un brano mid-tempo scritto e cantato dal chitarrista dei M.F.S.B., Herb Smith. "It's Been Cool" riporta il funk, mentre la disco in forma elegante ritorna con "I Want To Rock You." Quest'ultima è la canzone che si avvicina di più allo stile del Philly Sound così come lo conosciamo. Concludiamo con una traccia fusion, "One For The Road," che si avvicina di più agli altri dischi di Wansel, in particolare al capolavoro "Life On Mars."

Questo disco, che vede anche la partecipazione delle Jones Girls alle parti vocali e gli inconfondibili arrangiamenti di Don Renaldo per fiati e archi, è stato registrato presso gli Sigma Studio di Philadelphia. Non ha ottenuto il successo sperato nel momento della sua pubblicazione ed è diventato col tempo una sorta di documento che segnala la fine dell'era del Philly Sound per molti dei musicisti coinvolti nella registrazione. È giusto definirlo un "classico minore," ma vorrei sottolineare l'importanza di Dexter Wansel come innovatore in questo genere musicale, un aspetto spesso trascurato.


giovedì 25 giugno 2015

TARGA MEI MUSICLETTER 2015 MIGLIOR BLOG PERSONALE





"DoctorWu" è stato nominato (insieme ad altri nove blog) come candidato alla vittoria finale del Targa Mei MUSICLETTER.IT 2015 nella categoria miglior blog personale.

Vi invito a votare ancora, avete tempo fino al 5 Settembre.

Questo il link per votare: https://www.facebook.com/musicletter.it/posts/10153486860843436

Votate, votate, votate !!

lunedì 22 giugno 2015

COMING HOME - LEON BRIDGES



Andate in chiesa ?
Pensate mai al mistero della fede e della resurrezione ?
Credete in Dio oppure no ?
Se pensate che adesso attaccherò un pippone sulla religione non preoccupatevi, qui si parla di un altro tipo di fede

Per esempio, se qualche anno fa foste capitati a Fort Worth per caso e aveste deciso di entrare nella chiesa battista della città, potreste aver avuto la fortuna di imbattervi in Leon Bridges proprio mentre cantava le lodi al Signore. In quel momento, anche i più incrollabili tra voi, atei e scettici, avrebbero sentito vacillare la loro incredulità. Sarebbero sorti dubbi, ma forse avreste pensato alla resurrezione, non quella di Cristo, ma di Sam Cooke e del giovane Marvin Gaye. Un vero miracolo, direi! Niente a che vedere con quei monsignori da noi che citano Emma e Marco Mengoni nelle loro prediche. No, qui stiamo parlando di voci e cuori che ci sono stati tramandati attraverso le generazioni.

Per fortuna, Leon Bridges ha portato il suo talento in forma di disco con "Coming Home". Anche se apparentemente potrebbe sembrare un esercizio di retro soul fine a se stesso, le parole e le melodie di Bridges portano avanti la tradizione della vera musica dell'anima. Leon Bridges ha compreso che era suo dovere purificare le anime degli ascoltatori dalla spazzatura sonora che le radio e la televisione ci impongono ogni giorno. Grazie a un disco di poco più di mezz'ora, che sembra essere cristallizzato nel tempo, precisamente nel 1963, anno di nascita di sua madre, possiamo essere purificati da tutta quella "munnezza" e nutrirci della musica immateriale che alimenta l'anima.

Abbiamo menzionato Sam Cooke e Marvin Gaye, e con loro compare anche il primo Smokey Robinson tra le note. Sono come tre angeli che, senza dimenticare che l'uomo è fatto di carne e ossa, accompagnano Leon Bridges con una band psichedelica texana, i White Denim. Ci ricordano che, oltre allo spirito, il corpo ha bisogno di cibo tangibile, pane e vino.

Leon Bridges ha stile, si veste come le generazioni precedenti negli anni '60. Non ha dimenticato generi musicali dimenticati come il doo-wop. Leon Bridges è un'anima analogica, e che James Brown lo abbia in gloria!

Ho visto la luce !

Allelujah !


venerdì 5 giugno 2015

KALEIDOSCOPE WORLD - SWING OUT SISTER


Quando "Kaleidoscope World" venne pubblicato, gli Swing Out Sister erano probabilmente consapevoli di non poter replicare il successo globale di "It's Better To Travel". Sicuramente non avrebbero mai immaginato che presto avrebbero rivitalizzato un certo tipo di pop che negli anni '80 era stato ingiustamente trascurato. Certi suoni e certi artisti, come Burt Bacharach e Morricone, Jimmy Webb e Dusty Springfield, sarebbero tornati alla ribalta nel decennio successivo, grazie anche ad altre band inglesi come Stereolab o Belle and Sebastian. In tutta onestà, il merito di questo ritorno va principalmente a Corinne Drewery e Andy Connell, i primi a credere in questa rinascita e a imparare le lezioni dai maestri della melodia.

Ricordo di aver acquistato l'album dopo aver ascoltato il singolo "You On My Mind", fortunatamente diverso dal bellissimo "Surrender" dell'album precedente. Ma questo era solo l'inizio. Già dalla seconda traccia, la memorabile "Where In The World", è come se si stesse aprendo un mondo che era stato riposto in soffitta per troppo tempo. Ma facciamo un passo indietro. Gli Swing Out Sister, avevano conosciuto il successo globale con "It's Better To Travel". All'epoca erano un trio, che includeva il batterista Martin Jackson. Jackson aveva lasciato la band durante le registrazioni di "Kaleidoscope World" per unirsi ai Magazine. Il tastierista Andy Connell, proveniente dai A Certain Ratio, e Corinne Drewery, una affascinante designer di moda e modella, erano gli altri membri del gruppo. Sorprendentemente, Corinne aveva pochissima esperienza musicale, tranne per un provino come cantante per la band dei Working Week.

Se il loro primo album era un mix di pop elettronico con un pizzico di jazz, "Kaleidoscope World" rappresenta il trionfo di un pop in bianco e nero, che richiama il jet set degli anni '60, i film di Claude Lelouch e Audrey Hepburn. La maggior parte delle canzoni sull'album rinunciano ai suoni sintetizzati che stavano spopolando all'epoca, optando invece per un'abbondante presenza di orchestre e fiati. Questa combinazione, insieme alla voce di Corinne, ci trasporta indietro nel tempo e ha aperto la strada a coloro che avrebbero adottato lo stile di vita retro.

Ma torniamo a "Where In The World". Posta come seconda traccia del lato A, è una canzone senza tempo e diventerà un punto di riferimento per la band. È un fiume di melodia, impreziosito dalla chitarra di Vini Reilly (qualcuno si ricorda dei Durutti Column?). La coda del brano è sorprendente, quasi come un inserto che, partendo da un assolo di chitarra spagnola, si sviluppa come una colonna sonora immaginaria. Può sembrare scollegato dal contesto, ma è una degna chiusura, suggerendo la direzione futura degli SOS.

Un elemento comune con i maestri del genere è la presenza di Jimmy Webb agli arrangiamenti di "Precious Word" e "Forever Blue", altre due canzoni eccezionali. In "Heart For Hire", il mondo di Burt Bacharach domina la scena. "Tainted" e "Waiting Game" possono sembrare leggermente fuori posto, quasi un omaggio alle stazioni radio FM dell'epoca, ma è solo un momento di deviazione. Con "Masquerade" e "Between Stranger" si torna sulla strada giusta. Il gran finale è dato da due strumentali, "The Kaleidoscope Affair" e "Coney Island Man", dove viene omaggiata l'arte di Ennio Morricone. Il cerchio si chiude con la copertina dell'album, in perfetto stile glamour retrò, sia nell'immagine di Andy e Corinne che nel logo dell'etichetta discografica, la "Fontana", ripescato dall'aspetto degli anni '60.

La musica potrebbe sembrare leggera, ma è ricca di sostanza. Se qualcuno vi dice che va bene per i cocktail, offrite loro un Vodka Martini, forse capiranno.

lunedì 25 maggio 2015

THE GRASS ROOTS E "PIANGI CON ME"


Nel tardo autunno del 1966, quando la band inglese The Rokes lanciò il loro primo singolo di grande successo qui in Italia, "Che Colpa Abbiamo Noi," nessuno avrebbe potuto prevedere che il lato B di quel disco, "Piangi Con Me," avrebbe conquistato le classifiche di vendita negli Stati Uniti grazie ai Grass Roots. In quel fervente periodo per la musica italiana, nella metà degli anni sessanta, era comune che le band dedite al beat prendessero canzoni di artisti di lingua inglese e le reinterpretassero in italiano. Ma in questo caso, avvenne l’opposto. 

Retrocediamo un po'. Nel 1965, anche negli Stati Uniti, si stava svolgendo una rivoluzione musicale con il rock. Gruppi come The Byrds avevano introdotto una felice combinazione tra il folk di Bob Dylan e il rock delle band inglesi. In questo contesto, emerse un talentuoso autore e produttore di nome P.F. Sloan. Insieme al suo collaboratore Steve Barry, cercava una band che potesse eseguire le canzoni che aveva scritto. La prima sperimentazione fu con una band chiamata "The Bedouins," ma quando scoprirono che dovevano limitarsi a cantare solo le canzoni del duo, senza aggiungere il loro repertorio, rifiutarono l'offerta. Tuttavia, Sloan non si arrese e trovò successivamente una band di Los Angeles chiamata "The 13th Floor." Questi non solo accettarono di cantare le canzoni di Sloan, ma accettarono anche di cambiare il loro nome in "The Grass Roots." Dopo aver registrato una cover di Bob Dylan che non ebbe molto successo e un secondo singolo in stile Byrds chiamato "Where Were You When I Needed You," che invece ottenne buone vendite, ecco giungere "Piangi con me."

Ma torniamo ai Rokes e a ciò che accadde allora. La band inglese che si trovava in Italia era una delle poche a registrare brani originali, e "Piangi con me," scritta da Shapiro e Mogol, era uno di questi. Con l'obiettivo di lanciare la carriera dei Rokes nel loro paese d'origine, ne fu fatta una versione in inglese chiamata "Let's Live for Today." Il testo fu notevolmente modificato rispetto all'originale italiano. Se quest'ultimo trattava in modo adolescenziale vittime e perdenti, la versione inglese, scritta da un team di parolieri della band, diventò un inno all'amore e critica i falsi miti della società occidentale e il materialismo, tanto che ai Grass Roots fu chiesto di incidere una versione censurata. È a questo punto che la storia si complica: il cantante dei Grass Roots ascoltò la canzone durante un soggiorno in Inghilterra, ma non era la versione dei Rokes, che fu incisa e pubblicata nel Regno Unito dopo quella dei Grass Roots. Era invece dei Living Daylights, ma non è chiaro come questi ottennero i diritti del brano, dato che i Rokes non avevano concesso autorizzazioni per altre registrazioni. Un furto? È probabile. Tuttavia, sembra che i Grass Roots abbiano comunque ascoltato in anteprima la versione inglese dei Rokes, poiché l'arrangiamento della canzone presenta più somiglianze con quella versione che con quella dei Living Daylights.

In conclusione, "Let's Live for Today" fu proposta dal cantante dei Grass Roots agli altri membri della band e a P.F. Sloan, che decisero che quella sarebbe stata la canzone a lanciare la loro carriera, e così fu (la canzone raggiunse l'ottavo posto nella classifica di Billboard e il quinto posto in quella di Cashbox). Forse i Rokes rimasero un po' delusi, dato che con la stessa canzone non ottennero il successo sperato in Inghilterra. Tuttavia, possono consolarsi sapendo di essere stati una delle band più amate in Italia negli anni '60 e di essere ancora ricordati oggi. Dopo il successo di "Let's Live for Today," i Grass Roots ebbero altre hit, divennero i preferiti dei DJ delle stazioni AM americane e incisero un altro brano di un autore italiano,  Lucio Battisti. “Balla Linda” divenne “Bella Linda” ed arrivò al nr. 24 delle charts Usa, ma questa è un’ altra storia. 

lunedì 18 maggio 2015

THE YOUNG PICNICKERS - THE PEARLFISHERS


Caro David,

Mi trovo seduto di fronte alla finestra, osservando i bambini attendere il loro scuolabus. Nel frattempo, il gatto del mio vicino si sta avventurando in guai, spinto dalla sua eterna curiosità e dall'ennesima rissa tra felini. Nell'attesa, sto ascoltando con grande piacere "The Young Picnickers", l'album della tua band, The Pearlfishers. È la colonna sonora perfetta per questa stagione estiva, che ancora conserva i profumi della primavera.

Il primo brano dell'album, "We're gonna save the summer," proclama il desiderio di preservare l'estate, trasportandoci in un magico viaggio attraverso la migliore musica pop degli ultimi tempi. Questa musica rievoca i maestri del genere, come Brian Wilson, Jimmy Webb e Burt Bacharach, e riesce a riscaldare il cuore. Questo termine spesso abusato trova qui un significato vero, poiché brani come "Another day out in the suburbs" mi riportano indietro nel tempo alla mia giovinezza, riportandomi alle dolci giornate trascorse con mia madre nei giardini, mentre nell'aria aleggiavano le note di Gilbert O'Sullivan.

Le tue canzoni evocano i ricordi lontani, incisi nella nostra mente, che emergono di tanto in tanto per ricordarci chi eravamo. Questi ricordi non si trasformano in nostalgia per un passato idealizzato, ma sono piuttosto un modo di interrogarlo, per capire chi siamo diventati nel corso degli anni. La vita è troppo breve per lasciarsi influenzare dai chiassosi impostori che cercano di dettare i nostri stili di vita, e la tua arte ci ricorda che siamo destinati alla bellezza, non alla volgarità.

In "The Young Picknickers," c'è una canzone che rappresenta l'apice della musica pop, tanto perfetta da essere paragonata a opere come quelle di Paddy Mc Aloon. "You Justify My Life" segna un punto di svolta nella concezione della musica e della vita, e la sua grandezza è dimostrata dal fatto che, nonostante sia stata pubblicata nel 1999, non ho ancora ascoltato nulla che si avvicini minimamente a essa.

Per concludere questa lettera, desidero ringraziarti perché attraverso la tua musica, nonostante la mia età avanzata, continuo a perseguire i miei sogni. Anche se ho abbandonato molti di essi nel corso della vita, essi rimangono custoditi in un cassetto che apro di tanto in tanto per ravvivarli.

Con affetto,

"Harmonica" 

P.S. David Scott è uno scozzese, il leader dei The Pearlfishers, una band di musica pop. "The Young Picknickers" è il loro terzo album, uscito nel 1999.

 

lunedì 11 maggio 2015

WORDS AND MUSIC - LONETTE MC KEE


Un mio amico recentemente mi ha suggerito di smettere di pubblicare articoli su artisti poco conosciuti e di concentrarmi su contenuti meno elitari. Dando un'occhiata alle statistiche di visualizzazione, devo ammettere che sembra avere ragione, visto che l'articolo sui The Knack è stato il più letto nell'ultimo mese. Tuttavia, il mio amico sa già che non cederò a questa richiesta e che se vuole leggere recensioni sui soliti nomi e dischi, dovrà cercare altrove. C'è un vasto mondo là fuori di artisti e opere d'arte dimenticate che richiederebbero più di una vita per essere esplorati, anziché ripetere per l'ennesima volta le stesse discussioni su dischi dei Pink Floyd o dei Nirvana, per fare due esempi.

Nel mio articolo di oggi, ci spostiamo indietro al 1978, e l'artista al centro delle mie riflessioni, Lonette McKee, è forse più conosciuta per la sua carriera cinematografica che per la sua musica. Sì, perché la signora McKee ha recitato in "Sparkle," un film del 1976, un'opera non eccezionale ispirata alla storia delle Supremes (e in effetti, spicca come la migliore durante le scene canore). Successivamente, ha recitato in film come Cotton Club, Malcolm X e Mo' Better Blues. Ma pochi sanno che Lonette McKee ha anche registrato musica, sebbene in quantità limitata, solo tre album in trent'anni, che sono passati quasi inosservati.

Tuttavia, il suo primo album merita davvero una riscoperta: "Words and Music," pubblicato nel 1978. Ascoltandolo oggi, ti chiedi come sia possibile che sia rimasto sconosciuto per così tanto tempo. McKee aveva dalla sua la bellezza, un'incredibile estensione vocale e un album registrato per la Warner Bros., con musicisti di alto livello come Patrice Rushen, Harvey Mason, Abraham Laboriel, Lee Ritenour e Ray Parker Jr. L'album offre una miscela affascinante di generi, con il pop interpretato in chiave soul e R&B, senza trascurare il blues, un po' come facevano Minnie Riperton e Roberta Flack. Sebbene manchi un singolo da classifica come quelli delle artiste menzionate, possiamo comunque apprezzare un gruppo di canzoni che confermano l'alta qualità della produzione musicale di quel periodo, anche se in modo meno noto. È un po' come confrontare i film italiani di genere di quarant'anni fa con quelli di oggi: da Marisa Mell ad Ambra Angiolini.

E qui, il mio amico farebbe la stessa, prevedibile domanda: "Pensi davvero che la musica del passato sia superiore a quella di oggi?" La risposta, come sapete già, è sì.



venerdì 1 maggio 2015

WE NEED TO GO BACK, THE UNISSUED WARNER BROS. MASTERS - DIONNE WARWICK



Nel 1972, quando Dionne Warwick lasciò la Sceptre Records per unirsi alla Warner Bros, nessuno avrebbe previsto che questi anni sarebbero stati tra i più tumultuosi della sua carriera. La Warwick fece questo passo insieme ai suoi mentori, Burt Bacharach e Hal David, che avevano l'intenzione di continuare a lavorare con lei e di aumentarne il successo. Tuttavia, la sfortuna volle che dopo aver prodotto e scritto gran parte del suo primo album per la nuova etichetta, "Dionne", il talentuoso duo di autori si separò poco dopo. Questo avvenne probabilmente anche a causa del fallimento, agli occhi della critica e del pubblico, del loro rifacimento in forma di musical di un leggendario film di Frank Capra, "Lost Horizon".

Alcuni potrebbero obiettare che, data la prolifica carriera di Dionne Warwick fino al 1972, con sedici album e numerose raccolte di singoli, non avesse più molto da dimostrare. Tuttavia, sarebbe stato un vero peccato se la voce di questa artista afroamericana fosse caduta nell'oblio. La Warner Bros non si scoraggiò e, con la partenza di Bacharach e David, subentrò subito il trio creativo della Motown: i signori Holland-Dozier-Holland. Inoltre, durante i cinque anni trascorsi alla Warner, Warwick ebbe l'opportunità di lavorare con autori e produttori del calibro di Thom Bell, Ashford & Simpson, Randy Edelman, Joe Porter, Jerry Ragovoy, Steve Barri e Michael Omartian. Nonostante l'impressionante elenco di collaboratori, i dischi prodotti in quel periodo non raggiunsero il successo sperato. Tuttavia, l'uscita nell'agosto del 2013 di un album di outtakes da quelle sessioni, intitolato "We Need To Go Back: The Unissued Warner Bros. Masters" e curato dalla label Real Gone Music, fa riflettere sulla situazione.

Questi diciannove brani inediti sono straordinari e in alcuni casi addirittura superiori alle registrazioni pubblicate. Se si ascolta una recente raccolta dei singoli usciti per la Warner, la differenza è evidente. L'album comprende anche tre brani scritti da Bacharach nel 1974 rimasti inediti, ma i pezzi di maggior spicco sono quelli scritti da Ashford & Simpson: "We Need To Go Back" e "Someone Else Gets The Prize". Sono due autentici capolavori che si sposano perfettamente con la voce in uno stato di grazia della Warwick, che appare più elegante e raffinata che mai, con una maturità vocale che raggiunge la sua massima espressione.

Mentre i brani scritti da Holland-Dozier-Holland sono di per sé notevoli, quelli prodotti da Thom Bell aggiungono un tocco del caratteristico Philly Sound al repertorio della Warwick. Il resto dell'album è altrettanto straordinario, ma qui mi fermo, lasciandovi la curiosità di scoprire le altre gemme nascoste in questa raccolta. In sintesi, si tratta di una collezione preziosa, curata con intelligenza e passione, che si distingue dalla consueta produzione destinata agli appassionati di musica. Questa raccolta ci regala una parte della storia della musica popolare che rischiava di andare perduta per sempre, ma grazie agli sforzi dei curatori possiamo ora goderne appieno.

giovedì 30 aprile 2015

SATURDAY NIGHT SPECIAL - THE LYMAN WOODARD ORGANIZATION


Il genere noto come "lo-fi" mi ha sempre dato l'impressione di essere un'espressione deliberata, scelta più per stile che per necessità reale di risorse, come se fosse un vezzo o una moda. Tuttavia, nel disco che presento oggi, sebbene il suo legame con il rock sia limitato, l'essenza autentica del lo-fi emerge chiaramente. La Lyman Woodard Organization e il loro album "Saturday Night Special" rappresentano una delle produzioni più sincere nell'ambito del funk e oltre. Siamo nel Detroit del 1975, una città già martoriata dalla crisi petrolifera del 1973, e questo album funge quasi da documentario sonoro della vita nei quartieri più disagiati dell'America urbana. Detroit è stata soprannominata "Murder City" o "la città del diavolo," ed è importante notare che Detroit è una metropoli unica, principalmente abitata da afroamericani (nove su dieci degli abitanti) e in cui un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

In questo contesto, Lyman Woodard, un organista jazz che fu uno dei musicisti di sessione più richiesti per le registrazioni Motown e che ha anche svolto il ruolo di direttore artistico per Martha and The Vandellas, offre una rappresentazione cruda e onesta del cosiddetto "ground zero" della società americana. La title track, divisa in due parti, funge da colonna sonora della vita nella "Motor City," dalla fatica che inizia all'alba sulla catena di montaggio all'innocente gioco dei bambini per le strade, affrontando temi come le rapine, la droga, sbirri e puttane. Questo è il funk cinematografico più coinvolgente che potete immaginare, autentico nella sua natura lo-fi, registrato in modo grezzo ma sincero fino al midollo.

Il secondo brano, "Joy Ride," apparentemente rilassato, cattura il suono della città al termine di una giornata di duro lavoro, la colonna sonora per chi torna a casa dopo essersi consumato in fabbrica, con note malinconiche e disincantate, ma straordinariamente belle. Come detto, Lyman Woodard era un eccellente organista, e il resto dell'album conferma la sua maestria. Sebbene meno centrato sul funk urbano, questo secondo lato dell'album è comunque radicato nella musica stradaiola, con ritmi latini che fungono da base per le acrobazie jazz e soul del gruppo, tra cui spicca "Cheeba," un brano suddiviso in due parti con una finale di pura improvvisazione. Non si tratta del tipico latin da salone da ballo; piuttosto, è il ritmo di strada degli immigrati.

Questo album è stato originariamente pubblicato dall'etichetta "Strata" e per molti anni non è stato ristampato. Nel 2009, la Wax Poetics Records ha compiuto un atto meritorio rieditando il disco, ripulendo le tracce dallo "sporco" originale. Tuttavia, mi permetto di suggerirvi caldamente di ascoltarlo nella sua versione originale, quella grezza ma al contempo sincera.


venerdì 24 aprile 2015

GODI POPolo: MARIO ACQUAVIVA


Le reazioni che ho avuto ascoltando "Notturno Italiano" e "Sogni e Ridi" di Mario Acquaviva sono state di sorpresa, meraviglia e rabbia. Intendiamoci, sono per natura un bastian contrario, come ogni toscano che si rispetti, mi piace andare a scovare roba che più snob non si potrebbe, mi piace il pop inteso come arte della canzone orecchiabile ma rifuggo da qualsivoglia ruffianeria che un ritornello può essere in grado di procacciare nell'ascoltatore distratto. Quindi, come vedremo, in "Notturno Italiano" e "Sogni e Ridi" di carne al fuoco ce n'è molta.

La sorpresa: vi confesso che di Mario Acquaviva fino all'altro giorno non sapevo niente e tanto meno mi immaginavo che in Italia, una trentina di anni fa, ci fosse stato un artista che prendendo spunto dal pop impelagato con il jazz (Steely Dan ? Steely Dan!) sia riuscito a creare due capolavori della canzone tricolore e soprattutto che sia riuscito a farseli pubblicare. Che poi non abbia venduto niente avreste potuto scommetterci una bolletta e ahivoi ci avreste vinto poco, dacché certe proposte sono come delle predicazioni nel deserto e facile è indovinare la sorte dei malcapitati che azzardano ad uscire dai canoni della canzonetta da festivalbar. Che poi, lì, al festivalbar, il signor Acquaviva c'è anche andato, nel 1983, ma probabilmente in quel contesto è passato più inosservato di un gatto nero nella notte. 

La meraviglia: due album, come dicevamo, che come minimo andrebbero ascoltati allo sfinimento per capire quanto geniale e preziosa sia stata la maestria musicale di Acquaviva. Il primo lavoro, "Notturno Italiano" edito nel 1983 in formato di E.P. dice già tutto del nostro e ne faceva presagire mirabilie in futuro, se soltanto fossimo stati in un paese più ricettivo a queste sonorità. Sin dalla title track, un superbo esempio di pop jazz e funk suonato come meglio non si potrebbe (e qui il plauso va ai turnisti che vi parteciparono, tra cui Faso e il povero Feiez, in futuro con Elio e Le Storie Tese) poi lasciatemi dire che questo disco suona BENE; dico, l'avete presente il piattume dei dischi registrati in Italia? Bene, qui sembra davvero di stare in uno studio di Los Angeles, dove niente viene lasciato al caso, e il risultato è quello di avere per le mani un pezzo unico, paragonabile in Italia ai dischi registrati negli studi della Numero Uno, l'etichetta di Battisti. 

Ci vorranno quattro anni, 1987, affinché Acquaviva riesca a realizzare il secondo album, "Sogni e Ridi" e qui le intuizioni del primo lavoro saranno sviluppate in maniera compiuta, lavorando di sintesi ma sempre nel solco del pop dagli afrori jazzati. 
Ma voi pensavate davvero che la maggioranza degli ascoltatori italiani fossero pronti per i cambi armonici, i ritmi spezzati, i ritornelli mancanti (possiamo azzardare che Acquaviva abbia evoluto il suono del Neapolitan Power) ? 
Sventurato paese il nostro, avere un artista che era quanto di più vicino all'arte di Donald Fagen e aver voltato la testa.

Di Acquaviva trovate poco o niente in rete, anzi, se qualcuno ne sa qualcosa di più è il benvenuto (ho visto che su ebay sono in vendita un Lp "Ballabile" uscito nel 1980 a nome Mario Acquaviva e probabilmente è lo stesso artista componente della band prog degli anni 70 "Quarto Stato". 




venerdì 17 aprile 2015

LOST AND FOUND: CHAPTER ONE - BLO


Quando pensi alla musica africana la prima cosa che ti viene in mente sono quegli artisti che usano fondere i suoni tradizionali con gli strumenti elettrici occidentali, e anche non puoi fare a meno di ricordare il grande Fela Kuti o gli Osibisa. Un altra cosa certa è che quando pensi alle band africane te le immagini e te le ricordi con almeno minimo dieci elementi al loro interno, tra strumenti tradizionali, fiati e quant'altro.

I Blo invece erano tre ragazzi nigeriani, il nome della band è l'acronimo dei loro nomi di battesimo, Berkley, Lalou, Odumosu, chitarra, batteria, basso e chiusa lì. Come altri ragazzi di altri paesi i nostri tre eroi hanno iniziato ai tempi della scuola a trastullarsi con gli strumenti; a quell'epoca avevano un altro nome, The Clusters, e suonavano altre cose, quelle che tutti conosciamo: qualcosa dei Beatles, un po' di r'n'b, Elvis, rumba e cha cha cha, ovvero tutto quanto facesse muover le chiappe nelle feste studentesche. Quindi molta musica occidentale e poca Africa ma la svolta per i nostri avvenne quando Ginger Baker, lo storico batterista dei Cream, durante uno dei suoi tre viaggi in quel di Lagos all'inizio degli anni settanta, li volle con se in tour per l'Europa e negli States dove i tre futuri Blo avranno modo di capire quale direzione dare alla loro musica. Ritornati in Nigeria a fine 1972 la prima cosa che decisero fu quella di salutare Baker e di formare una nuova entità, lasciando ai ricordi The Clusters e divenendo semplicemente Blo.

La musica appunto: spazio ad un suono che dall'esperienza fatta in occidente se ne ritornava nella terra madre africana e ne inglobava la ritmica nella parte del basso, mentre chitarra e batteria se la giocavano con la psichedelia innerbata da massicce dosi di Funk. Il loro primo album, "Chapter One" registrato a Lagos, è un iperbolico esempio di tutte queste componenti messe insieme ed è oggi stesso una piacevole sorpresa rimasta nascosta per troppo tempo.
Beat funk, rock e psichedelia, dicevamo, e sullo sfondo quel basso pulsante che ricorda il ritmo dei padri: raramente ho ascoltato un ensemble così ben amalgamato ed un disco i cui brani sono così convincenti.
Perso nei meandri della storia e nelle bancarelle dei collezionisti, "Chapter One" è stato provvidenzialmente ristampato nel 2013 dall'etichetta Mr. Bongo, quindi non avete più scuse per fare orecchie da mercante.

Buon Ascolto.