martedì 19 aprile 2016

NICE AND SOULFUL - CAROLINE CRAWFORD



Caroline Crawford potrebbe essere ricordata da alcuni di voi come la voce solista di "Let's Start The Dance," il brano disco di successo di Hamilton Bohannon. Alcuni appassionati, come me, potrebbero aver cercato di scoprire se questa cantante avesse lasciato una traccia più ampia della sua arte musicale.

I primi passi nel mondo della musica di Crawford risalgono al lontano 1960, quando, all'età di tredici anni, vinse un talent show presso una stazione radiofonica di Detroit, la WCHB. Questo successo le valse un contratto discografico con la Motown Records. Tuttavia, il suo talento non fu completamente sfruttato dalla Motown, e dopo solamente tre singoli, di cui uno scritto da Smokey Robinson, che non ottennero grandi vendite, il suo contratto non fu rinnovato. L'ultimo suo disco per la Motown, "When Someone's Good To You," ha acquisito una sorta di gloria postuma grazie agli appassionati del Northern Soul, e giustamente, direi. Dovreste ascoltare questa meraviglia per capire.

Dopo alcune esperienze infruttuose in due gruppi vocali femminili, nel 1976 la carriera di Crawford subì un cambiamento radicale quando entrò a far parte del mondo di Hamilton Bohannon. Insieme a lui, contribuì a sei album che arricchirono ulteriormente il repertorio musicale dell'artista afroamericano e le regalarono successo, anche se non sempre sotto il suo nome.

Tuttavia, vorrei concentrarmi anche sulla carriera solista di Caroline Crawford, che comprende solo tre album registrati per la Mercury Records tra il 1978 e il 1990. In particolare, mi soffermerei sull'album del 1979, "Nice and Soulful," prodotto, come il suo predecessore "My Name Is Caroline," da Hamilton Bohannon. Quando ascoltate questo disco, viene un certo rammarico sapendo che nel corso del tempo i lavori solisti di Crawford sono diventati rarità conosciute solo da pochi. Tuttavia, la seconda sensazione che vi pervaderà è quella di trovarvi di fronte a un capolavoro di soul funk.

In quest'opera, una voce ricca di sfumature tonali si sposa perfettamente con una strumentazione funk essenziale e senza fronzoli, con poche tracce di fiati, che in questo contesto non fanno certo mancare. "I'll Be Here For You" apre l'album con un tocco di soul e un bell'arrangiamento di archi, arricchito da un assolo di sax (uno dei soli due brani con un fiato presente). Con il secondo brano, "Can't Hold Me Back," ci immergiamo direttamente nel funk più puro, senza compromessi con nessuno. Questo spirito funky si riflette anche in "The Strut" e "Havin Fun," dopo una breve pausa con la ballata soul "Love Me Or Leave Me Alone," in cui apprezziamo la profondità vocale di Crawford.

Questi due brani, oltre a rappresentare i momenti culminanti della produzione di Bohannon, dimostrano che non dobbiamo mai sottovalutare chi considera la musica come qualcosa di superficiale e semplicistico. Forse avete sentito dire che Bohannon è solo un musicista "disco," ma chi vi ha detto questo può prendere questi due brani e riflettere sul proprio giudizio. Tra questi, troverete "The Facts Of Life," una ballata coinvolgente che vorreste non finisse mai.

Per favore, date a questo disco una possibilità e tirate fuori dal dimenticatoio Caroline Crawford.

mercoledì 6 aprile 2016

AFTERSUN - BILL LAURANCE



"Aftersun" è il terzo album solista del britannico Bill Laurance, noto principalmente come tastierista della band statunitense Snarky Puppy. Questa band ha svolto un ruolo cruciale nel riportare nuova vita alla fusion, liberandola dalla superficialità che l'aveva colpita quando il genere aveva preso la direzione del "smooth jazz."

Per fare un confronto, è come passare da una sala da concerto a una sala da tè. Non c'è nulla di male nel tè, anzi, lo apprezzo molto, ma lo smooth jazz, con la sua suavità e il suo lato troppo sofisticato, è stata la vera causa della caduta della fusion. La fusion aveva cercato di rivitalizzare il jazz, coinvolgendo l'ascoltatore con ritmi funk e una grande dose di energia.

Nell'album di Laurance, non troverete nulla di superficiale. Invece, ci sono nove brani che pongono il ritmo e l'improvvisazione al centro della loro essenza. Grazie alla solida sezione ritmica degli Snarky Puppy, Bill Laurance esplora una gamma di brani che spaziano dal funk più incisivo all'afrobeat, senza trascurare il lato più tradizionale del jazz, dove il pianoforte acustico è protagonista, ma sempre con basso, batteria e percussioni in primo piano.

Laurance attinge dalle lezioni dei maestri della fusion, come i Weather Report, ma anche da gruppi come Steps Ahead e Yellowjackets, e aggiorna il linguaggio del genere con influenze più recenti, creando un'atmosfera cinematografica che attraversa l'intero album.

Ciò che è notevole in lavori come questo è il rischio di ottenere una cacofonia di suoni, con musicisti che cercano di mettersi in mostra. Tuttavia, in "Aftersun," si percepisce un senso di coesione e armonia tra i membri della band, il che rende l'ascolto coinvolgente e mai noioso.

In definitiva, si tratta di un ottimo disco.

martedì 29 marzo 2016

REJECTED SCRIPT - M.A. BAKKER


Davanti a una vecchia macchina da scrivere, un uomo appare perplesso. Sopra un tappeto, si vedono fogli appallottolati e un nome scritto: M.A. Bakker, acronimo di Maarten Bakker, che inizialmente non mi diceva molto. Ho fatto una piccola ricerca online e ho scoperto che Bakker è olandese, appassionato di letteratura gotica e umoristica, appassionato di cinema e musica. Suona il basso per una band di Amsterdam chiamata gli Amsterdam Saints. "Rejected Script" è il suo primo album da solista. Per questo progetto, Bakker ha collaborato con Warren Byrd, l'uomo che canta in tutti e dieci i brani dell'album. Bakker ha scritto tutte le canzoni, suona chitarra, basso e tastiere, ed è anche responsabile della produzione, dell'artwork, del mixaggio e dell'editing.

A questo punto, non rimane che ascoltare l'album, e la buona notizia è che c'è molto da apprezzare per gli amanti della musica d'annata. Sembrerebbe che quest'anno sia particolarmente generoso con le uscite nell'ambito del Yacht Rock, quel genere che fonde pop con abbondanti dosi di jazz e soul. Bakker sembra avere studiato attentamente alla "scuola" di Fagen e Vannelli, con insegnanti come Graydon e Colaiuta, e questo si riflette nello stile e nel groove delle canzoni. Se non guardassimo la data sul retro dell'album, che riporta il 2016, potremmo facilmente pensare che si tratti di un prodotto del 1976 o lì vicino.

Prendiamo ad esempio "House of Leaves," un brano che sembrerebbe un outtake da "Kathy Lied," con un perfetto e autentico ritmo funk o, per essere precisi, sembra una canzone che Fagen avrebbe composto in un momento di ispirazione per Bakker. Ma oltre a questa, ci sono molte altre sfumature musicali presenti nel disco. "It's A Dirty Job," per esempio, richiama immediatamente alla mente il migliore Yacht Rock, con un inizio che ricorda "Can't Be Seen," uno dei brani iconici della west coast, cantato da Dane Donohue.

"All We Need" omaggia invece il lato solista di Fagen, in particolare l'album "The Nightfly," e lo fa con rispetto, regalandoci un bellissimo finale con sintetizzatore. In "Fright Night," l'unione tra Steely Dan e Gino Vannelli è evidente, specialmente nel modo in cui il ritornello e il bridge di chitarra sono composti.

La presenza costante di un sottofondo funk, abilmente coordinato dal basso, è una caratteristica distintiva di "Ming Zhao Paradise." In "Jet Set Dream," la chitarra suonata alla Jay Graydon e la batteria con un tocco Colaiutano nel ritornello creano un'atmosfera davvero interessante.

"Goodnight Susanna" è una bellissima ballata, con un affascinante sottofondo di organo e un ritornello accarezzato dai fiati, elegante e sofisticato nel suo svolgersi. In "The Sirens Of Titans," si omaggia la chitarra di Steve Lukhater e quel tipo di canzone pop che improvvisamente si trasforma, fondendo il funk con una leggera inflessione reggae, e con un bellissimo assolo di flauto.

E poi, c'è "Oasis," una ballata che sembra uscire direttamente dal repertorio d'oro di Gino Vannelli. Infine, "This Amazing Hat," che apre l'album ed è uno dei momenti più belli dell'intera raccolta. È una canzone che cambia continuamente ritmo ed atmosfera, attraversando vari generi musicali, dal soul al jazz, al blues, all'r'n'b e al funk, e dimostra quanto il Yacht Rock sia inclassificabile ma affascinante.

In conclusione, auguro a M.A. Bakker di poter realizzare altri album come questo, anche se raggiungere la perfezione sarà sicuramente un compito arduo.

giovedì 24 marzo 2016

JOHAN CRUIJFF


“Tutti gli allenatori parlano di movimento, di correre molto. Io dico che non è necessario correre tanto. Il calcio è uno sport che si gioca col cervello. Devi essere al posto giusto al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi"

Ecco, io per una volta almeno, sono stato nel posto giusto al momento giusto. 

Tutte quelle volte che ti ho visto giocare. 

E tutte quelle volte che correvamo dietro ad un pallone immaginando di essere te.

Ciao Johan.

venerdì 18 marzo 2016

SMILE - JUDY ANTON


Avviso: Questo post è dedicato agli appassionati dei sentieri del Yacht Rock, con un grado di devozione quasi patologico. Chi ama questo genere capirà il percorso che sto percorrendo, mentre gli altri potrebbero comunque trovarlo interessante, chissà.

Il personaggio principale è una ragazza americana di nome Judy Anton, che all'età di tredici anni si trasferisce in Giappone con suo padre per motivi di lavoro. Rimane lì per diversi anni e si appassiona così tanto alla musica da registrare due album, pubblicati solo per il mercato giapponese. Uno di questi è "Sunshowers In My Eyes" nel 1979, mentre il focus di oggi è sul secondo, "Smile," pubblicato solo un anno dopo.

L'album contiene otto brani e dura poco più di mezz'ora. Quattro di questi sono cantati in giapponese, il che riflette l'ambiente musicale in cui Judy lavorava, così come il produttore Makoto Matsushita.

Mi permetto una piccola digressione qui: ricordate quanto il sax fosse di moda nella musica pop degli anni '80 e quanto sia caduto in disuso da allora? Beh, per voi fanatici della musica d'annata e del sassofono, questo album è un vero piacere. Inizia con "Living in the City," un brano fantastico in cui Takeshi Itoh suona il sax con grande virtuosismo. Il sax e altri strumenti contribuiscono a creare un sottofondo sonoro che è il culmine delle produzioni mellow-yacht rock dell'epoca.

Judy Anton dimostra la sua abilità nel reinterpretare "The River Must Flow," un capolavoro già reso celebre da Gino Vannelli. Sebbene non raggiunga le vette di Vannelli, riesce comunque a trasmettere delle emozioni. L'album procede con delle ballate, talvolta con sfumature jazzate, ideali per concludere una serata in completo relax. Non cade mai nel banale, e a tratti ricorda l'omonimo album di Amy Holland, uscito anch'esso nel 1980, un'altra gemma di quel periodo.

È inutile dire che Judy Anton è scomparsa dalla scena musicale, e il suo album è diventato presto un oggetto ultra raro, un vero tesoro per noi appassionati dello Yacht Rock. Ringraziamo il potere della rete che ci consente di riscoprire queste piccole gemme.


mercoledì 16 marzo 2016

UNTITLED UNMASTERED - KENDRICK LAMAR


Criticate pure la mia pigrizia, ma da quando è uscito "To Pimp A Butterfly," il capolavoro di Kendrick Lamar, niente mi aveva spinto a scrivere a riguardo. Quindi, accettate questa mia recensione di "Untitled Unmastered" come un modo di rimediare?

Pubblicato inaspettatamente il 3 marzo scorso, questo album del Re di Compton è essenzialmente una raccolta di brani avanzati (non scartati, fate attenzione) dal suo lavoro precedente. Ribadisce con forza la supremazia di Lamar (in comproprietà con D'Angelo, aggiungerei) nel mondo della musica afroamericana. Sì, afroamericana, perché limitare questo artista al rap o all'hip-hop sarebbe ingiusto.

Ci sono otto tracce senza titolo, numerate dall'01 all'08, e una durata complessiva di trentaquattro minuti. Il suo stile richiama più Tupac che Kanye West, e nei testi non troverete le solite storie di sesso e violenza, ma riflessioni su colpa e redenzione, razzismo e sfruttamento dei neri da parte dei bianchi. Si occupa persino di temi come l'immigrazione, cosa che non vediamo fare ai rapper italiani, troppo impegnati a sparare sciocchezze sui social.

E la musica? Lamar esplora la storia della musica afroamericana senza cadere nel revivalismo. Intreccia suggestioni funk e soul, riporta il jazz al centro dell'attenzione, si avventura nella bossa nova, e addirittura fa un accenno a Prince, quasi esortandolo a ritornare al suo antico splendore. Sentite l'introduzione della traccia 01, e poi mi direte.

Con il supporto di musicisti eccezionali, tra cui i grandiosi Kamasi Washington al sax e Thundercat al basso, "Untitled Unmastered" è un altro tassello fondamentale per comprendere l'evoluzione della musica afroamericana.

martedì 15 marzo 2016

WE DELIVER - THE MIAMIS


Gli anni d'oro del CBGB di New York furono un'epoca sfavillante. Per ogni band che riusciva a emergere, ce n'erano molte altre che conobbero solo una gloria fugace, spesso circoscritta al palco del mitico locale newyorchese. Tra queste, c'erano anche i The Miamis, guidati dai fratelli James e Thomas Wynbrandt. Le loro gesta, ora solo immaginabili, sono state raccolte nella recente compilation "We Deliver: The Lost Band Of CBGB Era (1974-1979)," pubblicata dall'etichetta Omnivore Records.

I The Miamis, a differenza delle band punk del CBGB, si specializzavano in melodie e armonie vocali tipiche del power pop. Erano persino ben voluti da personalità del calibro di Debby Harry e Tommy Ramone. Insomma, potevano competere con gruppi come i Cheap Trick e i The Rubinoos. Tuttavia, come spesso accadeva a chi si cimentava in questo genere, i ragazzi si ritrovarono con una gloria effimera, pochi soldi e nessun contratto discografico. Una situazione ideale per fan devoti del genere, come il sottoscritto.

Dell'eredità dei The Miamis restano solo alcune demo e alcune registrazioni dal vivo al CBGB, insieme ai ricordi di coloro che li videro esibirsi. Erano troppo "pop" per i punk, ma troppo "indie" per il pubblico mainstream. Un mix difficile per un artista, e lo sarebbe ancora oggi.

Nei The Miamis c'era l'innocenza delle origini del rock, la musica fatta solo per divertimento, un concetto incomprensibile per l'Italia che ha sempre cercato di seguire tendenze intellettuali.
Oggi, tutti i membri della band svolgono altri lavori, e chissà se provano rimpianto per non essere diventati famosi. Forse si accontentano delle occasionali reunion, suonando di nuovo le canzoni rimaste sepolte per quarant'anni.




venerdì 11 marzo 2016

REFLECTIONS IN REAL TIME - KILO KISH


Forse mia figlia, quattro anni più giovane di Kilo Kish, sarebbe in grado di recensire il suo debutto su lunga distanza meglio di me. Dopo tre EP, l'artista afroamericana ha finalmente pubblicato il suo primo album completo. Vi confesso che quando mi trovo ad ascoltare dischi come questo, una mescolanza di avant r'n'b e hip-hop, in cui il canto sembra essere solo un'idea astratta, faccio fatica a esprimere pensieri coerenti. Ma forse è solo una questione di approccio.

Parlando di Kilo Kish, potrei dire che si tratta delle riflessioni di una ventisettenne laureata in design tessile presso la Fashion Institute of Technology, trasformate in musica. E, per essere onesti, ci sono spunti interessanti qui. A volte, la giovane artista non disdegna di sfiorare la melodia, e ci sono brani che risultano abbastanza orecchiabili. Altri, invece, sono esperimenti che cercano di rompere con il già sentito. Il punto debole, come ho già accennato, è la voce, ma forse nell'opera di Kilo è solo un elemento di secondo piano.

L'album vanta venti canzoni, alcune delle quali sono appena abbozzate. Questo riflesso dei tempi attuali, simile a tanti messaggi inviati alle amiche tramite WhatsApp o Instagram, richiede a noi vecchi cinquantenni di essere aperti e disposti ad accettare l'evoluzione musicale, sia nel bene che nel male. In effetti, nonostante tutto, il diario musicale di Kilo Kish non mi è dispiaciuto. A volte, dischi come questo servono a riportarci con i piedi per terra e a scuotere la presunzione di chi ha vissuto l'età d'oro della musica e giudica con sufficienza. 

Dare un'ascoltata al mondo di Kilo Kish sul vostro smartphone quando tornate a casa non fa male. Se si tratta di un bluff o dell'inizio di una bella storia, lo scopriremo solo vivendo, come ha detto qualcuno.

giovedì 10 marzo 2016

CHANGES - CHARLES BRADLEY

 "Changes" è il titolo del nuovo album di Charles Bradley, ma in termini di cambiamenti, come scopriremo ascoltandolo, ce ne sono davvero pochi, almeno sul fronte musicale. Bradley si muove con maestria nel solco del soul più classico, talvolta sfiorando il funk, il tutto grazie a una voce che richiama in modo impressionante quella del leggendario James Brown.

Il disco si concentra principalmente sulle emotive torch ballad e canzoni che arrivano dritte al cuore dell'ascoltatore. Detto questo, il nuovo lavoro di Bradley non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo a quanto già conoscevamo dell'artista. Questo può essere un merito, ma allo stesso tempo un limite, specialmente per chi, come me, ha ascoltato innumerevoli volte questa tipologia di sonorità.

Non fraintendetemi, l'album è senza dubbio bello, ma bisogna ammettere che non si può vivere eternamente nel passato idealizzato. Il problema è che ho ascoltato molti dischi simili nel corso del tempo. Tuttavia, potrebbe essere un ottimo punto di partenza per chi si avvicina per la prima volta al soul e desidera esplorare le opere dei grandi artisti come James Brown o Al Green per scoprire un mondo musicale ricco di emozioni.

P.S. Il disco verrà pubblicato il primo aprile, e non si tratta di uno scherzo; la title track è una cover di un brano dei Black Sabbath.

venerdì 19 febbraio 2016

PERPETUAL GATEWAYS - ED MOTTA


In Brasile vive un uomo il cui amore per la musica è senza pari. All'interno delle sue mura, si celano trentamila dischi in vinile e innumerevoli CD. Tuttavia, questo uomo non è soltanto un collezionista; egli è anche un musicista e cantante straordinario.

Ora, tre anni dopo il suo album "AOR", Ed Motta è pronto a stupirci con una nuova opera musicale, "Perpetual Gateways", che si rivela essere il degno successore. Ancora una volta, le sonorità che richiamano gli Steely Dan aprono le danze. "Captain's Refusal", ad esempio, potrebbe facilmente essere scambiato per un brano degli Steely Dan da "Gaucho". Subito dopo, "Hypocondriac's Fun" fonde il linguaggio di Fagen con quello di Stevie Wonder, creando un risultato affascinante. "Good Intentions" invece ci catapulta nel cuore del soul, con una performance vocale straordinaria da parte di Motta. "Reader's Choice" rievoca ancora le suggestioni degli Steely Dan, come un antipasto per la successiva "Heritage Deja Vu", che chiude la prima parte dell'album con maestria, offrendoci un pezzo in perfetto stile soul jazz.

L'abilità di Ed Motta sta nel prendere gli elementi di vari generi musicali e plasmarli a suo piacimento, creando melodie che stimolano la mente e complessi cambi di tonalità. Accompagnato da una band straordinaria, tra cui spiccano Patrice Rushen alle tastiere, Greg Phillinganes al clavinet, Marvin "Smitthy" Smith alla batteria, i bassisti Tony Dumas e Cecil McBee, Rickey Woodard al sax e Curits Taylor alla tromba, Motta canta questa volta in inglese, mantenendo un tappeto sonoro puro e senza compromessi.

Dopo la prima parte dell'album, ci si aspetterebbe un'ulteriore incursione nel soul jazz, ma Ed Motta ci sorprende. La seconda parte è dominata dal jazz puro e senza fronzoli. Motta ci invita a esplorare le radici della sua musica, deliziandoci con altri cinque brani raffinati che svelano l'essenza dell'artista brasiliano.

Si apre con "Forgotten Nickname", una bellissima jazz ballad notturna da locale fumoso, con Patrice Rushen al Fender Rhodes e al piano acustico, arricchita da un eccezionale assolo al flauto di Hubert Laws. Seguono due uptempo, "The Owner" e "A Town In Flames", due brani che avrebbero trovato casa nel repertorio di Mark Murphy, incarnando la vera essenza dell'hipsterismo. "I Remember Julie" è una scivolata vocale contrappuntata dalla tromba, mentre nell'ultima traccia, "Overweight and Overblown", Motta sfoggia il linguaggio "scat" in un pezzo groovy che mette il sigillo sull'intero disco.

Se c'è qualcosa da sottolineare, è il coraggio di Ed Motta nel rinunciare alle influenze della musica brasiliana, in particolare della bossa nova. Tuttavia, alla luce del risultato finale, non possiamo lamentarci della sua scelta. "Perpetual Gateways" è, senza dubbio, uno dei migliori album usciti nel 2016. Obrigado, Ed!


venerdì 5 febbraio 2016

IL LUNGO ADDIO: MAURICE WHITE (1941-2016)




"The light is he, shining on you and me."

C'è qualcuno là fuori che vorrà spendere almeno una bella parola per Maurice White e per ciò che ha rappresentato nella storia della musica? So bene che in Italia, il soul e il funk sono apprezzati solo da pochi, e che la notizia della sua scomparsa non riceverà la stessa risonanza mediatica che ha avuto quella del "duca bianco", ma mi perdonerete, il creatore degli Earth, Wind & Fire è stato e rimarrà per me uno dei punti fermi nel mio percorso di appassionato di musica e uno dei motivi per cui scrivo su questo blog.

Nel ricordo di Maurice White si intrecciano i momenti della mia adolescenza, le domeniche pomeriggio trascorse nelle discoteche e nei locali di Firenze ormai scomparsi, proprio come quei miei 16 anni, e l'ascolto delle loro canzoni, apparentemente così perfette e semplici, ma in realtà così complesse nella loro composizione.

Gli Earth, Wind & Fire sono un gruppo che molti hanno cercato di imitare senza successo, con una sezione fiati tra le più incredibili mai ascoltate, con molte anime al loro interno: dal funk più grezzo al soul con influenze latine, fino al lussuoso e sensuale pop che artisti come David Foster, Jay Graydon, Skip Scarborough e Bill Champlin hanno donato a White per far crollare ogni resistenza nell'ascoltatore medio di pelle bianca.

Tutto questo è stato Maurice White, e se vi sembra poco...


lunedì 1 febbraio 2016

E PENSO A TE - LUCIO BATTISTI


Mi sono sempre avvicinato alle cover delle canzoni di Lucio Battisti con una certa diffidenza, se non addirittura con una repulsione vera e propria. Le sue canzoni originali erano già perfette di per sé e non avevano bisogno di ulteriori interpretazioni. Preciso che sto parlando dei brani cantati originariamente da Battisti, non delle canzoni scritte inizialmente per altri artisti.

Battisti è stato oggetto di reinterpretazioni da parte di tutti: versioni jazz, in alcuni casi notevoli, da cantanti pop intramontabili a quelli noti solo per un'ora, fino ad arrivare addirittura a Carlo Conti, dove il presentatore fiorentino si cimenta in un improbabile medley tratto da un album che, già dal titolo, dice tutto: "Carnevalestro."

"E Penso A Te" ha fatto la sua prima apparizione su vinile come lato B di "Maria, Maria," anch'essa opera di Battisti-Mogol, un 45 giri che doveva rilanciare la carriera di Bruno Lauzi. Tuttavia, sarà la versione del genio di Poggio Bustone a diventare un classico e una delle canzoni d'amore più belle nella storia della musica italiana. Una canzone con un giro armonico semplice, struggente e malinconico, con un'apertura che non è né un vero ritornello né un bridge, ma con una lunga coda strumentale che ha molti punti in comune con la beatlesiana "Hey Jude."

La leggenda narra che la canzone sia nata in poco più di venti minuti, sul tratto autostradale tra Milano e Como, dove Battisti guidava e canticchiava mentre Mogol scriveva le parole.

Chi, se non Battisti, poteva reinterpretare in modo convincente ma totalmente diverso l'originale? Da sempre appassionato delle sperimentazioni, qui Lucio trasforma completamente il brano, rendendolo funky, con un ritmo simile a "Prendila Così" e un lungo assolo di pianoforte elettrico con sfumature jazz, cambiando completamente il significato della canzone. Ma le sorprese non finiscono qui: il brano diventa "I Think Of You" ed è cantato in inglese. In origine, doveva far parte del secondo album di Battisti per il mercato anglosassone, basato sulle canzoni di "Una Donna Per Amico" con l'aggiunta di "I Think Of You" e di "Baby It's You," la versione inglese di "Ancora Tu."

"Friends," questo il titolo dell'album, avrebbe dovuto uscire nel 1979 ma non vedrà mai la luce, e solo negli anni duemila avremo la possibilità di ascoltarlo.

Se le canzoni di Battisti sono unanimemente riconosciute come classici della canzone italiana, lo dobbiamo anche a quei jazzisti che si sono avvicinati al suo lavoro allo stesso modo in cui si trattano gli standard della canzone americana. Battisti e Mogol erano come i nuovi Rodgers e Hart, tanto che una delle versioni jazz più belle del songbook battistiano è proprio "E Penso A Te." Questa volta, è la tromba e l'arte di Enrico Rava nell'album "What A Day" del 1990 a rendere omaggio al brano, recuperando quell'atmosfera struggente e malinconica dell'originale.




martedì 19 gennaio 2016

IL LUNGO ADDIO: GLENN FREY (1948 - 2016)



Oggi voglio parlare di canzoni che ho ascoltato per la prima volta alla radio durante i miei anni di scuola media. Ricordo una sera in particolare, mentre ascoltavo il programma serale "Supersonic" sulle frequenze Rai e mi imbattevo in "One of These Nights." La differenza tra quei giorni lontani e adesso è che, nonostante abbia scoperto molta altra musica nel corso degli anni, la musica degli Eagles e di Glenn Frey non mi ha mai abbandonato, anzi, è rimasta parte di me.

La musica di Glenn Frey e degli Eagles è come un'immaginaria California che non solo entrava nella mia cameretta di periferia a Firenze, ma anche nell'anima, lasciandomi sensazioni che mi hanno accompagnato nel corso degli anni. Non importa se molti considerano gli Eagles e la loro musica come qualcosa di superfluo, io ci sono cresciuto e quei dischi rappresentano dei bei ricordi condivisi con gli amici di allora. Spesso, quei dischi sono stati un punto di partenza per esplorare suoni più profondi e autentici dell'America, diversi da quelli raccontati dagli Eagles.

Proprio oggi, mentre guidavo verso il lavoro in una fredda mattina di gennaio, le note di "Lyin' Eyes," "Take It Easy" e "Tequila Sunrise" suonavano alla radio. Come tanti anni fa, ho immaginato Firenze con la cupola del Brunelleschi e il Ponte Vecchio sospeso sull'Arno, come se fossero tranquilli monumenti sotto il sole della California.

Ciao Glenn, e grazie per le emozioni che la tua musica ha portato nella mia vita.

 

lunedì 18 gennaio 2016

CAPOLAVORI: FUTURES(1977) - BURT BACHARACH



Futures è il primo album di Burt Bacharach dopo la fine del rapporto artistico con il paroliere Hal David, (anche se qui sono presenti due brani della premiata ditta) ma è anche il primo disco in cui il compositore americano si lascia indietro i successi che lo avevano caratterizzato nel decennio precedente per giungere ad un nuovo linguaggio, più interiore e più maturo, se mi passate il termine.
Poco conosciuto, Futures è davvero uno sguardo in avanti rispetto all'anno di uscita, si parla del 1977, non orecchiabilissimo ad un primo ascolto, ma se prestiamo l'attenzione che merita, possiamo già da subito riconoscerne quei tratti che saranno poi sviluppati nel decennio successivo nel capolavoro di Carole Bayer Sager "Sometimes Late At Night" per concludersi compiutamente negli anni novanta con "Painted From Memories", un ennesimo capolavoro dove Elvis Costello prende il posto della ex moglie di Bacharach.

La musica di Bacharach, anche quella più riconoscibile e di successo, ha comunque una vena malinconica di fondo, penso a brani come "Alfie" e "A House Is Not A Home", in Futures però si va in direzione della disillusione e dell'introspezione, come se l'artista volesse renderci partecipi del proprio "mal di vivere" raccontandolo in forma di note. Sembra quasi una sfida ai propri fans, una maniera gentile di farsi partecipi di una fase delicata della propria vita ascoltando composizioni facili all'apparenza ma tremendamente complicate nella costruzione e nella metrica.

Ad ogni ascolto ti sorprendono le soluzioni adottate da Bacharach per raccontare il suo mondo: dalla voce soulfoul dolce e arrabbiata di Joshie Armstead nell'iniziale "I Took My Strenght From You" o la strabiliante "Us" sempre con Jo Armstead alla voce, qui ancora più rancorosa, brano questo che anticipa di venti anni davvero le canzoni di "Painted From Memories", bellissimo, che ha la sua continuazione nella successiva "Where Are You", aperto e chiuso da un fenomenale assolo di sax per opera di David Sanborn, quasi come fosse una canzone unica divisa in due parti.
Le strazianti parole di James Kavanough in "We Should Met Sooner" sono giusto mitigate dall'accompagnamento e dalla melodia ideata da Bacharach, dove il bel ritornello è costruito come per dare un briciolo di speranza al testo cantato da Jamie Anders.
"No One Remembers My Name", con il testo di Hal David, sembra invece appartenere al songbook di Carole Bayer Sager e all'album citato all'inizio del post, ma lo precede di quattro anni, e le voci qui impiegate sono quelle delle coriste di Burt: Sally Stevens, Melissa Mackay e Marti Mc Call.
Da segnalare infine due composizioni strumentali che non fanno che confermare la grandezza di Bacharach, la title track "Futures", brano dalle sfumature funk e "Another Spring Will Rise", un capolavoro coronato da un memorabile fraseggio al pianoforte, summa di tutta l'arte del compositore di Kansas City.

Concludendo la recensione, mi sono accorto di avere usato molte iperboli per descrivere "Futures". Poco male, ne sarebbero occorse anche di più, ascoltate il disco e ne converrete anche voi.


lunedì 11 gennaio 2016

IL LUNGO ADDIO: DAVID BOWIE (1947-2016)

Una delle frasi retoriche più insopportabili è quella che recita "lo spettacolo deve continuare " quando in alcuni casi sarebbe cosa buona e giusta fermarsi.

Bene, oggi è una di quelle giornate, come lo fu quella dell'otto Dicembre del 1980; fermarsi come forma di rispetto nel ricordo di David Bowie, e di tutti quei momenti scolpiti nella nostra memoria. Si perché l'artista inglese ha attraversato ogni giorno della nostra esistenza, come un alieno arrivato dalle stelle nel periodo più innovativo e glorioso della storia della musica popolare, e come un demiurgo ha scandito gli stati d'animo di noi nati all'inizio degli anni sessanta e fine cinquanta.

Dall'adolescenza inquieta in cui "Rebel Rebel " era il tuo inno stradaiolo, alle bellissime  suggestioni soul e funk di "Fame" e "Young Americans " a quel qualcosa che avevi dentro e non sapevi tirarlo fuori, salvo trovare le risposte in "Heroes" e in "Ashes to Ashes", fino al canto del cigno di "Let's Dance", inno agli edonistici anni 80 ed ultimo lavoro dove ti potevi immedesimare nell'artista. Una peculiarità questa che non ho ritrovato nei seguenti lavori, un barcamenarsi tra mestiere, voglia di sperimentare cose nuove, ma senza quel qualcosa in più (l'anima forse?) che trovavo sempre e comunque negli album precedenti.

Questo piccolo ricordo di David Bowie voglio che finisca con quella che considero una delle più belle canzoni che siano mai state scritte nella storia della musica, quella "Life on Mars" che prima di una canzone è uno stato dell'anima, anche se non conosci una parola d'inglese.

Questo era il mio David Bowie.

Riposa in pace, e grazie di tutto.

lunedì 4 gennaio 2016

DOWN TWO THAN LEFT (1977) - BOZ SCAGGS



Boz Scaggs, attualmente settantaduenne, è un veterano del blues che continua a registrare dischi senza chiedere di più alla sua illustre carriera. Le sue opere sono sempre eleganti ma possono sfuggire all'attenzione dopo qualche ascolto. Coloro che hanno vissuto gli anni '70 potrebbero faticare a riconoscere l'eroe del nascente movimento musicale californiano che fuse rock, soul e pop. Scaggs ha venduto milioni di copie dei suoi dischi e ha collezionato numerose hits, alcune delle quali sono ancora suonate nelle feste con un tocco di nostalgia.

"Down Two Then Left" è uscito dopo il successo straordinario di "Silk Degrees", un album seminale nel suo genere, e ha visto un cambio di produzione artistica con l'arrivo di Michael Omartian al posto di David Paich. Il risultato è un lavoro più orientato verso il blue-eyed soul rispetto al precedente, anche se manca un successo come "Lowdown". 

Mentre "Hollywood" omaggia la scena disco in chiave funk, è con "A Clue" e "Watcha Gonna Tell Your Man" che il disco raggiunge l'apice, con due autentici capolavori del soul bianco. Nel mezzo, c'è il soul con influenze jazz (o forse dovrei chiamarlo fusion, un termine nobile per chi non si attiene rigidamente al purismo) di "We're Waiting", una bellissima ballad diventata un classico come "Then She Walked Away", con una grande dose di classe. La vivace "1993" ricorda "Lido Shuffle", mentre il blues si fa sentire in modo travolgente nella traccia funky "Gimme The Goods". Jeff Porcaro offre una delle sue migliori performance alla batteria, con il supporto preciso dei migliori musicisti californiani dell'epoca, tra cui Jay Graydon, Ray Parker Jr. e Steve Lukather alle chitarre, Victor Feldman alle tastiere e David Hungate al basso.

È vero che la musica evolve costantemente, e questo è giusto così, ma ascoltando un lavoro come questo, ci si potrebbe augurare di essere intrappolati negli anni '70 per sempre.