giovedì 6 febbraio 2025

The Language of Life - Everything But The Girl (1990, Atlantic Records)

C’è un momento, nella carriera di ogni artista, in cui osare diventa necessario. Per gli Everything But The Girl quel momento arrivò nel 1990, quando accettarono di trasformare il loro minimalismo britannico in un disco lussuoso, sontuoso, quasi hollywoodiano, senza perdere l’intimità che li ha resi leggenda. Ieri The Language of Life ha compiuto 35 anni: un’occasione per riscoprire un album che è un ponte sospeso tra due mondi. 

Quando il produttore Tommy LiPuma - maestro di iper-produzioni raffinate, dove ogni nota è un calcolo perfetto - ascoltò per la prima volta la voce calda e ipnotica di Tracey Thorn e l’arte minimalista di Ben Watt, fu un colpo di fulmine. Li volle in America, deciso a plasmare un lavoro intriso di quel pop/soul californiano che pochi sapevano cantare. Gli EBTG, inizialmente scettici, cedettero un anno dopo: nacque così un disco che li trasformò, senza tradirli.  

The Language of Life è un paradosso: una colonna sonora levigata fino all’ossessione, eppure calda, umana. Merito della voce di Tracey, capace di rendere soul anche il suono più pulito. E dietro le quinte, un dream team di musicisti da brivido: Stan Getz, Kirk Walhum, Marc Russo e Michael Brecker al sax, Joe Sample e Russell Ferrante alle tastiere, Vinnie Colaiuta e Omar Hakim alla batteria, John Patitucci al basso, Michael Landau alla chitarra, Lenny Castro alle percussioni, Jerry Hey al flicorno. Eppure, al centro di tutto, c’era sempre lei: Tracey. La sua voce non cantava le parole, le abitava.

The Language of Life fu accusato di essere troppo levigato, troppo americano per un duo inglese. Ma chi lo ascolta oggi sente altro: la complessità nascosta dietro l’apparente semplicità. Prendi Driving, con la voce della Thorn che scivola come pioggia sui vetri, prendi Letting Love Go, la perfezione fatta canzone, o The Road, dove il sax di Getz e la voce di Ben si fondono, facendo  nascere un dialogo silenzioso che parla direttamente all’anima. Sì, è pop nella forma - melodie che si incollano alla memoria - ma è soul nella sostanza, perché ogni nota racconta una verità. E Tracey, in questo, è una medium: trasforma canzoni d’amore in confessioni universali. 

Perché ascoltarlo ancora?  

Perché è un disco che invecchia al contrario: più passa il tempo, più rivela sfumature. Perché è la prova che un produttore geniale non soffoca gli artisti, ma ne accende la luce. E soprattutto, perché è un inno alla bellezza rischiosa - quella che nasce quando abbandoni la tua zona sicura e ti affidi al talento degli altri, senza paura di perdere te stesso. 





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