Missin’ Twenty Grand - David Lasley (1982, EMI Records)

 


Se fosse conosciuto quanto è amato dagli artisti che hanno interpretato le sue canzoni, David Lasley non sarebbe oggi appannaggio di una ristretta cerchia di appassionati, ma occuperebbe un posto di rilievo nello star system musicale.

Autore di raffinata eleganza e sensibilità unica, David Lasley è riconosciuto soprattutto per aver firmato brani indimenticabili come “You Bring Me Joy”, reso celebre dall’interpretazione memorabile di Anita Baker nel suo album capolavoro “Rapture”. Le sue prime esperienze musicali maturano nel gruppo Rosie, un progetto in bilico tra r’n’b e sonorità disco che gli permette di affinare il gusto per le melodie sinuose e per gli arrangiamenti ricchi di groove. Dopo aver affiancato stelle del soul e del pop come Bonnie Raitt e Earth, Wind & Fire come vocalist di supporto, Lasley debutta come solista con un album che racchiude la sua cifra stilistica: “Missin’ Twenty Grand”, disco di pop vibrante, ricercato nell’armonia e permeato di ritmi leggeri ma mai superficiali. 

Cantato in falsetto, che ha la particolarità di non risultare mai stucchevole, le canzoni dell’album sono una dichiarazione d’amore al soul della Motown visto attraverso gli occhi di un ragazzo bianco; si raccontano storie d’amore gay tra le righe (Lasley non si fece problemi a fare coming out già negli anni ’70), canzoni che rappresentano il non plus ultra del pop mainstream, ma di qualità assoluta, costruite su una solida intelaiatura blue-eyed soul, lontane mille miglia dal ciarpame che gira adesso. Si fa davvero fatica a scegliere un brano che spicchi sugli altri: per quanto mi riguarda, già il terzetto che apre il disco – “Got To Find Love”, “If I Had My Wish Tonight”, “Looking For Love On Broadway” – basterebbe a considerare l’album di una bellezza disarmante. Se poi ci aggiungiamo “Never Say”, che non sfigurerebbe nel canzoniere dei fratelli Gibb, e “Where Is Charlie and Joanne”, gioiellino pop di rara maestria, allora siamo davanti a uno di quei dischi che ti fanno venire voglia di rimettere la puntina all’inizio appena finisce. Le restanti canzoni affondano nel sound Motown – del resto Lasley nasce a Detroit e di quelle sonorità è impregnato fin dentro le ossa – e lo si sente bene in brani come “On Third Street” e “Treat Willie Good”. In “Take A Look” domina invece l’atmosfera da jazz club, con una ballad dove il falsetto di Lasley raggiunge vette impressionanti, mentre in “Take The Money And Run” fa capolino un certo sapore Westcoast alla Doobie Brothers / Steely Dan.

L’album, a dimostrazione di quanto detto all’inizio, vede la collaborazione di protagonisti di primo piano della scena musicale anglo-americana: Pete Townshend, Luther Vandross, Bonnie Raitt e James Taylor. È scritto quasi interamente da Lasley, con l’eccezione di cinque brani firmati da nomi come Willie Wilcox, Dave Loggins, Randy Goodrum, James Taylor, Clyde Otis e Don Paul Yovell.

La critica statunitense lo accolse con entusiasmo: David Holden lo definì “uno degli album di debutto più impressionanti dell’anno”, elogiato anche da Dave Marsh e Don Shewey su testate come Rolling Stone, The New York Times e The Village Voice. Non stiamo parlando di qualche foglietto fotocopiato per compiacere la tribù del quartierino.

E in Italia? Calma piatta. Lasley e il pop non hanno mai avuto il riguardo che avrebbero meritato: qui se non hai un distorsore alla chitarra o non sembri appena uscito da un garage con la muffa alle pareti, puoi pure crepare col microfono in mano.









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