martedì 28 febbraio 2012

DIPINTO SU TELA


Lo vedi in copertina con un pennello in mano, nell'atto di imprimere del colore su di una tela, ma non è un pittore nel senso letterale del termine. Possiamo però intenderlo tale in un altro modo, se sostituiamo al pennello la sua voce ed al posto della tela abbiamo un disco, vinile, cd od mp3. Si, l'ascolto del nuovo album del cantante afroamericano Gregory Porter mi ha dato questa sensazione/emozione, "Be Good" il titolo, è infatti uno di quei dischi che ti arrivano in casa quando meno te lo aspetti, diventano da subito necessari e ti riconciliano con il canto, in questo caso con il "bel" canto. Bel canto che noi italiani sappiamo riconoscere di primo acchito, non importa che sia impaludato in teatri lirici però, basta anche un locale buio con tre sedie e due tavolini perché il miracolo di ascoltare una bella voce si compia. Gregory Porter è la voce che ci riporta alla miglior tradizione dei crooner neri, Lou Rawls e Nat King Cole in primis, ed ogni altra parola è superflua per descriverlo, va ascoltato e basta. Se poi ci mettiamo il carico da novanta di un disco che fila via liscio dalla prima all'ultima canzone, direi che per oggi può bastare così.
P.S. Porter è presente come voce solista nel brano che apre il nuovo album di Nicola Conte, "Love and Revolution".

domenica 26 febbraio 2012

BUONE NUOVE (STAGIONATE)


Prima di diventare, insieme a Jay Graydon, uno tra i principali produttori della scena pop-west coast californiana, David Foster è stato autore di alcuni tra i dischi più interessanti per il genere durante il decennio dei seventies. Il primo gruppo con cui ha collaborato sono stati gli Skylark, autori di due vinili tra il 1972 ed il 1974, l'ultimo sono stati gli Airplay, band formata insieme al chitarrista e producer Jay Graydon autori di un disco fondamentale per il genere uscito nel 1980. Nel mezzo ci sono stati gli Attitudes, ed è la band di cui vi parlerò nel post di oggi. Foster riunì alcuni tra i migliori musicisti dell'area californiana, ovvero Paul Stallworth, Danny Kortchmar e Jim Keltner, arrivando a pubblicare due album tra il 1976 ed il 1977. Tralascio volentieri il primo disco, piacevole ma niente di che, sopratutto alla luce dei componenti la band, mentre il secondo, "Good News", già fa intravedere le notevoli capacità di Foster come musicista ed autore e tessitore di trame musicali che saranno il tratto caratteristico delle sonorità pop-west coast californiane, creando di fatto un genere tanto amato dagli appassionati, quanto osteggiato dalla critica. "Good News" non è certo un capolavoro, ma contiene dei brani piacevoli da ascoltare, si va dal pop-funky-soul di "Drink My Water" a pezzi mid-tempo come "Change" e "Promise the moon". In "Change" appare per la prima volta la chitarra di Jay Graydon nell'assolo del pezzo, già inconfondibile e già necessaria per il genere, ascoltate come pochi secondi riescono a caratterizzare il brano altrimenti anonimo. "Good News" come detto è il secondo ed ultimo disco degli Attitudes, dopo per David Foster, sarà tutta un'altra storia. Da segnalare la partecipazione di Booker T. Jones alle tastiere e in alcuni brani possiamo ascoltare la sezione fiati dei Tower of Power e Ringo Starr alla batteria.



venerdì 24 febbraio 2012

FOPP


Smargiassi, grezzi, fuori di testa e massicci. Questi, in poche parole, erano gli Ohio Players. Qualcuno forse se li ricorderà grazie al loro hit che trovò un buon riscontro anche qui da noi, quel "Love Rollecoaster" coverizzato in maniera sciapa dai Red Hot Chili Peppers, ma se ci soffermiamo solo su quel brano conosceremo soltanto un quarto della forza della band di Dayton, Ohio. Un gruppo grezzo e compatto, dicevamo, capace però di passare, grazie ai loro stupefacenti arrangiamenti, dal blues al funk più duro e puro fino a morbidezze inaspettate, come ad esempio possiamo ascoltare nell'album "Honey" del 1975. Prima di approdare sulla riva del funk gli Ohio Players erano un buon gruppo che si dilettava nel fare del black-rock anonimo, l'approdo alla Mercury Records però dette loro la spinta e la convinzione nel cambiare marcia e diventare in pochi anni un gruppo che sbaragliò letteralmente la concorrenza. La band era capitanata dal chitarrista e vocalist Leroy "Sugarfoot" Bonner, coadiuvato dalla massiccia sezione ritmica formata dal batterista James "Diamond" Williams e dal bassista Marshall Jones, la bollente sezione dei fiati vedeva Clarence "Satch" Satchell al sax ed i trombettisti Ralph "Per Wee" Middlebrooks e Marvin Pierce. Fu però l'ingresso pre-"Honey" del tastierista Billy Beck con il suo sintetizzatore ARP, a mettere a fuoco e far quadrare la musica della band, facendole spiccare letteralmente il volo. L'album "Honey", oltre ad essere un capolavoro immortale della musica black e non solo, sarà ricordato anche per le vicissitudini riguardanti la copertina, che allora fece molto scalpore. Per rimarcare una volta di più la loro immagine di erotomani impenitenti, i Players ingaggiarono una playmate panamense, tale Esther Stobba, per realizzare la copertina del disco; in pratica, la modella apparve come mamma l'aveva fatta: sul lato esterno la ragazza era ritratta nuda nell'atto di versarsi avidamente in gola del miele, sul lato interno, sempre nella sua interezza e sempre nuda, con il miele versato addosso. Ma per una volta il valore della musica all'interno della copertina batteva e di gran lunga tutto il contorno, tanto da far diventare gli Ohio Players una delle band più influenti degli States.
Oggi quindi sotto con "Fopp", brano ripreso anche dai Soundgarden nel 1988 (lasciate perdere questa versione però) e con un repentino cambio di ritmo, la lussuriosa "Sweet Sticky Thing".
Una curiosità: il sindaco di Dayton dichiarò il 16 Maggio del 1976 "Ohio Players Day" e consegnò ai musicisti le chiavi della città.



mercoledì 22 febbraio 2012

LA DONNA DI PICCHE

Proseguiamo l'excursus sulle nuove voci femminili legate al jazz e a quel che ci gira intorno parlando oggi della canadese Elizabeth Sheperd. L'album di cui vi parlerò oggi non è nuovissimo essendo uscito nel 2010 per l'etichetta Do Right! Music, "Heavy Falls The Night" è il titolo, mentre un nuovo cd, il quarto se escludiamo una raccolta di lati B e remix vari, è in uscita il prossimo aprile. Di lei si dice che sia una delle jazziste più talentuose del momento, anche se il termine jazzista è riduttivo, visto che la ragazza sa muoversi bene e con eclettismo in territori contigui al jazz. Dopo aver ricevuto il plauso per i suoi precedenti lavori ed aver fatto dei concerti sold-out in posti come il Jazz Cafè di Londra, il Cotton Club di Tokyo e l'Hollywood Bowl di S.Francisco, "Heavy Falls The Night" arriva giusto come un'evoluzione del sound di Elizabeth Sheperd. Anzitutto nel disco si ascolta una particolare cura nelle sovraincisioni vocali della cantante e pianista canadese, sfatando così la retorica dei dischi jazz suonati esclusivamente live; qui veramente è stato fatto un gran lavoro in sala d'incisione e si sente. In secondo luogo, il disco è un modo di approcciarsi al jazz in maniera intelligente, andando a pescare nel groove inteso come sonorità che devono tanto al soul e al funk, il tutto mediato dall'intelligenza musicale della Sheperd. Di tutti i brani del disco il mio preferito è "The Taking", superba canzone in 11/8, jazz e orgoglioso groove urbano miscelato insieme. Insomma, la donna di oggi è una che sa quel che vuole e sa come ottenerlo ed è la dimostrazione che anche suonando un genere "chiuso" come il jazz, se si ha la mente aperta ai suoni che ci circondano, si ottengono questi risultati. Passate parola, merita veramente.

domenica 19 febbraio 2012

LA TIMIDEZZA DI MR. JORDAN

Di Marc Jordan e del suo album "Blue Desert" ne ho già parlato un po' di tempo fa', ma siccome mi è capitato di riascoltarlo recentemente e le canzoni lì contenute sono di una bellezza rara, voglio ritornarci sopra. L'artista canadese è la classica persona che è tanto timida quanto brava, che forse per la sua timidezza è rimasto ai margini del panorama musicale e ciò si può evincere dai suoi lavori, canzoni sofferte che parlano del "privato" dell'artista, dischi che hanno il pregio di entrare in casa dalla porta di servizio, ma che poi si arrogano il diritto di diventare il fulcro della propria collezione di musica e musicanti. Questo poi è uno dei lavori dove chi non si accontenta di ascoltare nenie monocordi da tre minuti tre, troverà pane per i suoi denti, fatto com'è di progressioni armoniche inaspettate, di assoli suonati pensando ai grandi del jazz, e a dei testi costruiti per esaltare le qualità vocali dell'interprete. L'album fu realizzato con precisione certosina dal produttore guru del pop californiano Jay Graydon, aiutato dall'onnipresente Jeff Porcaro e da gente come Michael Omartian, Greg Mathieson, Steve Porcaro, Jim Keltner ed Earl Klugh, che definirono una volta di più qual'è la differenza tra il cialtronismo e la cura per i dettagli. Voglio quindi invitarvi a conoscere attraverso questo disco l'uomo Marc Jordan e sono sicuro che con le sue piccole storie, somiglianti a tante delle nostre, ve lo faranno diventare amico.



sabato 18 febbraio 2012

SUONATE COME LORO, SE VI RIESCE !

via Tarkus

Se nel post dedicato a Pino Daniele ho usato la parola "rivoluzione" per i musicisti che crearono il "Neapolitan Power", miscela di jazz, rock e funk, oggi parliamo della persona che con la sua band fu l'artefice di quella rivoluzione. James Senese ed i Napoli Centrale furono a metà degli anni '70 il gruppo che più di ogni altro cercarono di cambiare il linguaggio della musica italiana, o perlomeno provarono a creare qualcosa di nuovo, tenendo ben presente però da dove provenivano. Quindi, poteva capitare in mezzo a suoni sicuramente debitori al jazz e al funk, di ascoltare richiami alla canzone napoletana. Senese, sassofonista ispirato da Wayne Shorter, creò con i Napoli Centrale un sound che fu di trasgressione sociale, teso e nervoso, arrivato in un momento propizio per riuscire ad avere successo non solo in Italia - è bene ricordare che il loro primo album arrivò al numero tre degli album più venduti - ma anche in Europa. I fermenti sociali e politici della società degli anni '70 furono un humus in cui la musica dei Napoli Centrale riuscì ad attecchire, riuscendo ad essere uno strumento culturale che riusciva a far passare i messaggi che le canzoni proponevano. Impensabile che nella disgregazione della società attuale e con il deserto culturale di adesso una proposta musicale come questa possa avere ai giorni nostri un certo riscontro. Però sarebbe bene non far cadere nel dimenticatoio questi artisti che diedero lustro alla musica italiana, anche se so bene che non trattandosi di rock, saremo sempre e comunque in pochi a parlarne.

mercoledì 15 febbraio 2012

CHE C'AZZECCA LA MUSICA CON IL FESTIVAL DI SANREMO ?


Si, facendo spregio della lingua italiana, come l'amico Zio Scriba mi ha fatto notare, giustamente, nel post di ieri, rincaro la dose dopo aver visto lo spregio alla musica che ho visto ieri sera durante la prima serata del festival. Si può dire che se il declino di una nazione passa anche dalla cultura popolare, quello che ho visto può essere preso ad esempio come risultato dello sfascio a cui il paese è stato portato da trent'anni a questa parte. La musica, o quel simulacro che è passato ieri sera, è ormai diventato un mero accessorio ad uno show televisivo, dove a farla da padrone è stata una predica di 50 minuti, si 50 avete capito bene, misticoqualunquistica dell'Adriano molleggiato. Se ancora qualcuno pensava che il fondo lo avessimo già toccato da un pezzo, chi ieri sera ha auto la malaugurata idea di vedersi tutto il festival, converrà con me che siamo davvero arrivati ad un punto di non ritorno. Sulle canzoni non ce n'è una che sia una da poter ricordare, sono lontani i tempi in cui un artista, Ray Charles in questo caso, prendeva una canzone anonima, la rigirava come un calzino e la faceva diventare commestibile. In sostanza, il default in campo nazionalpopolare è già arrivato.
L'unica cosa buona, è stata la sigla iniziale suonata dall'orchestra prima dell'inizio della gara: hanno fatto "Also Spracht Zarathustra" nell'arrangiamento di Eumir Deodato, e sinceramente dopo l'esecuzione, si poteva girare canale tranquillamente.
Dice: "ma che ti aspettavi"? Niente di che, ma è stato veramente uno strazio, e poi, mi sono sacrificato per voi. ;o)

martedì 14 febbraio 2012

CHE C'AZZECCA IL FESTIVAL DI SANREMO CON IL SOUL ?



Ecco, siccome sono un bel masochista, stasera mi sa che mi metterò a vedere il festival di Sanremo, un po' per tradizione, per curiosità di sicuro, un po' per assumere quell'aria di superiorità da spendere con i colleghi di lavoro, per la serie "ma come, a voi piace quella merda?", un po' nella speranza, forse malriposta, di incocciare in qualche canzone che perlomeno non mi faccia rimpiangere il tempo perduto, e qui confido in Nina Zilli, forse. Comunque, visto che questo blog si occupa di musica black in generale, chissà se vi ricorderete della partecipazione al festival di due pesi massimi della soul music: Wilson Pickett e Stevie Wonder. Il prima cantò al festival del 1968 in coppia con Fausto Leali, "Deborah" la canzone, il buon Stevie, allora 19enne, cantò "Se tu ragazzo mio" in coppia con Gabriella Ferri. Sicuramente due canzoni prescindibili, anche se l'impegno dei ragazzi non venne meno e nel caso di Wilson Pickett, con la sua performance riuscì perlomeno a rendere interessante quel brano. Stevie, invece, nonostante l'impegno, non riuscì a compiere il miracolo di tramandare ai posteri quella canzone, perlomeno lo ascoltiamo cantare in italiano, anche se, con tutta onestà, ne avrei fatto anche a meno. Pickett tornerà sulla riviera ligure l'anno successivo con "Un'avventura", questa volta in coppia con Lucio Battisti. Stevie invece non ritornerà più a Sanremo, doveva esserci quest'anno in veste di ospite, ma a causa del suo cachet troppo caro, non lo vedremo sul palco. Ah già, è vero, i nostri soldi li hanno spesi per Celentano.



domenica 12 febbraio 2012

IL LUNGO ADDIO: WHITNEY HOUSTON, 1963-2012


Di lei si dirà che è stata uno dei più grandi talenti vocali buttati via. Sicuramente non una delle mie cantanti preferite a livello di produzione, troppo enfatiche alcune sue canzoni, ma le va riconosciuto di aver ridato lustro alla grande tradizione americana delle dive della black music, un trait d'union che parte da Diana Ross passando per Aretha Franklin. Un talento buttato via letteralmente, una carriera che ha toccato vette altissime per poi piombare nel tunnel della depressione e delle droghe. Irriconoscibile durante un suo concerto milanese di un paio di anni fa', mai più ritornata come era stata all'epoca del film "The Bodyguard", arrivato nel punto più alto della sua carriera e forse l'inizio della fine. Mi piace ricordarla con una canzone di quella pellicola, non la straconosciuta "I will always love you", ma "Run to you", titolo oggi quanto mai profetico, così come le immagini del video. Se ne va dimenticata da tutti, o quasi....
So long, Whitney.

sabato 11 febbraio 2012

MOD(E) STILI: LA LAMBRETTA


Della Lambretta ho un ricordo di quando andavo in campagna dai miei zii. Il fratello di mia madre aveva uno splendido esemplare bianco e rosso, credo che fosse il modello TV 175 terza serie, lo usava per calare in paese per andare a passare la domenica al circolo arci, tra sfide a briscola e generose bevute di vino. Io che non sono mai stato un appassionato di moto, sempre preferito le quattro ruote, avevo però un afflato di simpatia sconfinante nell'amore per quel curioso scooter. Innanzitutto era bello, più bello della concorrente Vespa (mi perdonino i vespisti tutti), agli occhi di un ragazzino era "moderno", mentre l'altra con quei pancioni richiamava generose zie poppute e culone, non parliamo poi delle moto "giapponesi", l'antistile a due ruote. In futuro, ho invidiato assai le Lambrette customizzate dai Mods, una meraviglia, altro che le Harley (ecco, adesso mi sono inimicato pure gli harleysti, mamma mia), e a vedere tutte quelle supposte viaggianti di ora, quei cazzo di scooteroni osceni, cresce il rimpianto per un oggetto che ha fatto la storia del design italiano. Del resto, basta confrontare lo spot della Lambretta con protagonisti il Quartetto Cetra (già, un buon motivo per ricordarli) con la merda da tronisti in calore che passa sui canali tv oggidì. E pensare che una volta avevamo stile....
Thanks to Tarkus che ha risvegliato in me la voglia di Lambretta, pur non avendo mai avuto una moto.

venerdì 10 febbraio 2012

LA DONNA DI CUORI


Prendo in prestito il titolo di un vecchio telefilm italiano degli anni '60 - vi dice niente il Tenente Sheridan ? - per iniziare a parlare di voci femminili dei nostri giorni che meritano di essere segnalate. Voci che avranno nel jazz e nel jazz virato nel soul il loro comun denominatore.
Malia ad esempio, cantante inglese originaria del Malawi, la sua voce ed il suo nuovo album "Black Orchid" oltre ad essere un omaggio a Nina Simone, è un viaggio nelle melodie e nei suoni che hanno fatto la storia del jazz, ma non solo, è anche un viaggio che porta direttamente al cuore. Accompagnata da un trio di musicisti francesi, il disco è minimalista nei suoni, essenziali direi, tanto da non aver bisogno di altri artifizi per raggiungere lo scopo; la voce di Malia poi fa il resto.
Un'orchidea nera come il fiore più raro e prezioso, come lo è questo disco: affascinante, misterioso e passionale come una donna di cuori. La passione e l'ossessione di possedere una donna irraggiungibile.
P.s. il video si blocca dopo pochi secondi ma poi riparte da se.

mercoledì 8 febbraio 2012

IL FUOCO INESTINGUIBILE DEL SOUL


Ecco uno dei gruppi che negli anni '90 riaccese nel sottoscritto la speranza di poter riascoltare della buona soul music fatta e suonata come suonavano i classici del genere. Ancora una volta per la rivalsa del funk e del soul ci dovettero pensare dei ragazzi inglesi, musicisti, etichette e dj's che andarono a formare quel movimento passato alla storia come acid-jazz, e tra tutti i Brand New Heavies ne furono i portabandiera e insieme agli Incognito, quelli che ebbero più successo. Sostanzialmente un trio strumentale i BNH incisero il primo album nel 1990 insieme alla vocalist Jay Ella Ruth, ottenendo un buon riconoscimento da parte della critica, ma il botto lo fecero due anni dopo, con l'ingresso in formazione della cantante afroamericana N'dea Davenport e la sostanziale riedizione del primo album con alla voce la nuova entrata. "Dream Come True", "Never Stop" e "Stay this way" trasportarono letteralmente la band dal culto dei dancefloor al successo delle classifiche mainstream, successo però quantomai meritato. Personalmente ritengo la band quanto di più eccitante avvenuto nel mondo della musica soul dai tempi di Rufus e Chaka Khan, e credo che basti questo mio "complimento" per esaurire qualsivoglia giudizio critico sulla band; in questo caso basta chiacchiere e parola alla musica !

lunedì 6 febbraio 2012

AL SOUL DELLA CALIFORNIA


Il giovanotto che vediamo investito da una secchiata d'acqua al sole della California può essere a ragione considerato come il precursore di quello che diverrà il pop west-coast californiano, genere sfuggente ed incatalogabile di per se', essendo una miscela di jazz, soul, funk, pop e folk. Ned Doheny quando diede alle stampe "Hard Candy" nel 1976, aveva già all'attivo un album uscito nel 1973, tra l'altro come primo artista scritturato dalla nascente Geffen Records, dove già si intravedevano i primi germogli del futuro sound, sicuramente acerbo se confrontato a questo. "Hard Candy" è prima di tutto un album ben suonato e ben prodotto, dietro la console abbiamo infatti Steve Cropper, i musicisti che collaborarono a far diventare il disco una pietra miliare del genere vanno da - oltre allo stesso Cropper - David Foster, Victor Feldman, Dennis Parker, i Tower of Power ai fiati e come backing vocals abbiamo gente del calibro di Glenn Frey, Don Henley, Linda Ronstadt, J.D. Souther e di nuovo Steve Cropper. Chiaro che con un parterre del genere i caporioni della casa discografica si aspettavano il botto, cosa che purtroppo, come successo ad altri musicisti del genere, non avvenne. Infatti dopo il terzo album del nostro, "Prone" del 1978 - altro capolavoro del genere tra l'altro - gli fu rescisso il contratto, così che per ascoltare ancora Ned Doheny si dovrà aspettare il 1988, con un album inciso per un'etichetta giapponese. Ritornando ad "Hard Candy" c'è da dire che è molto difficile consigliare una canzone invece di un altra; sono infatti nove brani qualitativamente superbi, raffinati senza essere rileccati e con una produzione asciutta ed essenziale. La scrittura sopraffina di Ned avrà la sua celebrazione con canzoni coverizzate da Mama Cass, dall'Average White Band e da Chaka Khan che trasformerà in hit "Whatcha gonna do for me" e cosa principale, le sue composizioni divennero un esempio per i musicisti che si cimentarono nel genere. Disco introvabile per anni, è stato ristampato nel 2011, nudo e crudo come allora e senza improbabili inediti.



sabato 4 febbraio 2012

RAPSODIA IN BIANCO


Guardate a cosa mi sono ridotto: approfittare della nevicata dello scorso mercoledì - dalle mie parti una ventina di centimetri come da tradizione - per parlare di lui, il vocione per eccellenza della soul music, anzi dello "Sweet Funk", come da alcune parti lo hanno appellato. Già mi vedo le vostre teste scuotersi con compassione per il sottoscritto: "cavolo, no dai, pure Barry White" !
Ve l'ho detto; è per colpa del tempo, che ancora oggi promette neve, e colpa sua che si chiama(va) White e che con le sue Love Unlimited se ne uscì fuori con "It may be winter outside", tanto per restare in tema. Tre ragazze agghindate in stile Supremes, ma arrivate quando la rivoluzione di James Brown era già avvenuta, un'orchestra che prese si il ritmo funk inventato dal Padrino ma che poi intorno lo rivestì con una cascata di archi e delle melodie adatte alla bisogna (la quale era principalmente quella di finire a fare all'amore). Musica che te la ritrovavi immancabilmente nelle discoteche quando arrivava il momento del pezzo lento, insomma, 'na roba per pomicioni e pomiciate pesanti e forse per questo che molti, pur non amando la sua musica, se lo ritrovarono sempre tra i piedi e se lo ricordano solo per questo. A me piace ricordarlo anche come un raffinato costruttore di melodie soul pop che, per quanto sdolcinate, hanno avuto il merito di far avvicinare al verbo molte persone, vedi il sottoscritto, che con "You're the first,the last etc. etc." ascoltò per la prima volta da pischello un tipo di soul music e sperimentò la riuscita della musica di White nelle festicciole di compleanno ai tempi delle scuole medie.
Let it snow!

venerdì 3 febbraio 2012

BREZZE ESTIVE E L'OMBRA DI HENDRIX

Forse pochi sanno che Jimi Hendrix, prima di spiccare il volo, è stato per un breve periodo-durante una tournée alle Isole Bermuda alla fine del 1963 per l'esattezza - la chitarra solista degli Isley Brothers; se qualcuno avesse dei dubbi, oltre che andare a reperire le informazioni a tal proposito, può capire quanto abbia influenzato il gruppo ascoltando "Summer Breeze", superba cover del brano portato al successo dal duo Seals and Croft. L'uso e l'assolo finale della chitarra rimanda al chitarrista di Seattle, ma non solo, l'album da cui è tratto, 3+3 del 1973, contiene anche un'altra traccia, "That Lady", che ripercorre i sentieri tracciati da Hendrix. Va da se' che il chitarrista della band, Ernie Isley , grazie a quella breve presenza di Jimi nella band, ne abbia assimilato tutta l'estrosità e lo stile. Gli Isley Brothers infatti, una volta abbandonata la Motown, poterono esprimere tutto il loro potenziale che fino ad allora era come imbrigliato negli schemi sonori della casa di Detroit, e grazie alle proprie radici r'n'b ed al loro background rock furono in grado di creare una poderosa miscela funk ed a rendere il giusto omaggio ad Hendrix. Ecco se c'è una cosa che avrei voluto ascoltare, da appassionato di musica, è il sentire un disco di Hendrix tutto votato al soul e più di una volta mi immagino come avrebbe potuto essere l'assolo di "Summer Breeze" suonato da Jimi.

mercoledì 1 febbraio 2012

IL SUONO MOTOWN E IL SOUL NORDISTA

Questa canzone è diventata forse l'archetipo del suono Motown: ritmo saltellante, chitarra, tamburello, batteria, sax e chiaramente la voce che dava l'impronta e caratterizzava il brano. Un sound che, con minime variazioni, è riscontrabile in quasi tutte le produzioni Motown degli anni '60. Sicuro che senza l'apporto di grandi vocalist non avrebbero avuto l'impatto che ebbero nel diventare delle hit mostruose facendo gonfiare il conto in banca di Mr. Gordy. Certe canzoni poi divennero degli inni per la nascente scena Mod di allora, in particolare questo brano, e definirono pure il genere Northern Soul che, caso unico nella storia, prese il nome da dove veniva ballato e ascoltato e non dal luogo dove nasceva artisticamente. Il Torch, il Wigan Casino ed il Blackpool Mecca, questi i dancefloor dove il genere si sviluppò e dove i giovani inglesi del nord si distinsero rispetto a quelli del sud del paese che preferivano il rock e la psichedelia, o tuttalpiù nei locali di Londra se musica nera si ascoltava, questa era il blues. "Helpless" è la classica canzone che faresti ascoltare a qualcuno se mai dovesse chiederti di spiegargli cosa è e come suona il Northern Soul; successivamente, se scatta l'hype, il passo successivo sarà quello di andare a scoprire tutti quei dischi rari di artisti semisconosciuti che sono la spina dorsale del movimento. Un disco che non può mancare nella collezione di ogni amante del soul (e lasciate perdere le classifiche di Rolling Stone).