Quanti capolavori ha regalato il contrabbassista Eberhard Weber alla discografia ECM? Veramente tanti, ma oggi voglio tornare a uno di quelli che ha scolpito il suo nome nella storia: The Colours of Chloë. Pubblicato nel 1973, questo album non è solo un’opera jazz, ma un viaggio attraverso spazi sonori che trascendono le gabbie del genere. È un’esperienza che mescola maestria compositiva, atmosfere ipnotiche e un contrabbasso che parla come una voce umana. Ascoltandolo in profondità, si scopre come Weber abbia contribuito a plasmare il suono tipico dell’etichetta ECM, diventando fonte d’ispirazione per molti musicisti - su tutti Pat Metheny (con cui ha collaborato in Watercolors nel 1977) - che hanno esplorato una fusion scevra da virtuosismi in stile circense, preferendo invece sobrietà e introspezione. A tal proposito, basta ascoltare la title track per cogliere il seme di un’alternativa radicale alla fusion d’oltreoceano.
The Colours of Chloë è un album che trascende i generi: c’è chi lo definisce jazz ambient, ma io propendo per l’etichetta "ECM sound", che meglio restituisce l’essenza di una musica organica, capace di espandersi e contrarsi come un respiro. Weber tesse paesaggi sonori in cui ogni dettaglio - calibrato con alchimia - evoca emozioni pure, libere da retorica.
Nato a Stoccarda nel 1939 e formato in ambito classico, Weber ha rivoluzionato il ruolo del contrabbasso nel jazz, ibridandolo con elettronica, effetti looping e una sensibilità vicina alla musica contemporanea. Oltre a The Colours of Chloë, album come Yellow Fields, Silent Feet e Later That Evening rappresentano l’apice di una ricerca timbrica raffinatissima, basata su archetipi melodici e su un uso narrativo del basso elettrico. Nel corso degli anni, Weber è stato un mentore per Kate Bush, collaborando con lei ad alcuni dei suoi album più significativi, come The Dreaming, Hounds of Love e The Sensual World. Weber ha messo la sua maestria a disposizione di altri musicisti, tra cui Gary Burton, Ralph Towner, Bill Frisell e Lyle Mays. Dal 1978, ha fatto del lavoro con Jan Garbarek una priorità: «Abbiamo un’ideale sintonia musicale», ha dichiarato Weber.
Oggi più che mai, in un’era di musica (o pseudo-musica) frenetica e sovraccarica, The Colours of Chloë si rivela un ascolto necessario. Ci ricorda il potere del silenzio, della lentezza, dell’equilibrio. Weber non ha mai temuto di mostrarsi vulnerabile, ed è proprio nell’intimità delle sue composizioni che risiede la sua grandezza senza tempo.
Eiko Kawashima, conosciuta artisticamente come Anri, è originaria di Yamato e vanta una carriera di oltre quarant’anni, con 25 album all’attivo e un enorme successo ottenuto in Giappone all’inizio degli anni ’80. La sua notorietà esplose con il brano “Cat’s Eye”, scelto come sigla dell’omonimo anime. I suoi album pubblicati nel 1982 e 1983 sono considerati tra i capolavori del City Pop, oltre a essere tra i più venduti del genere. Autentica ambasciatrice del pop giapponese nel mondo, lo stile di Anri si distingue per un sound che guarda all’Occidente, mescolando elementi di r’n’b, jazz, soft rock e qualche incursione nella disco music.
Heaven Beach - (1982, For Life Records)
L’album Heaven Beach è quello ha fatto conoscere Anri al pubblico occidentale. In questo disco spicca la splendida Last Summer Whisper, un raffinato mid-tempo in stile West Coast pop, amatissimo dai rapper di tutto il mondo, che lo hanno spesso utilizzato come fonte di campionamenti. Il resto dell’album si muove con disinvoltura tra influenze yacht-rock, come nel brano di apertura 二番目のaffair, Fly By Day e Lonely Driving, senza però rinunciare al caratteristico stile pop locale. Quando l’album si addentra nelle ballad, i miei brani preferiti sono Resolution (a differenza di pezzi come la title track e 夏に背を向けて, che indulgono un po’ troppo nelle sdolcinatezze) e Honesty Man. Quest’ultimo si apre con un’intro che richiama la tradizione musicale giapponese, per poi evolversi in sonorità che richiamano il pop americano degli inizi degli anni ’60.
Timely!! - (1983, For Life Records)
È con il successivo Timely che Anri raggiunge l’apice della sua carriera, realizzando un disco straordinario: un mix perfetto di R&B, Disco, Yacht Rock e suggestioni alla Doobie Brothers, grazie anche alla produzione di Toshiki Kadomatsu, con l'assistenza del compositore e arrangiatore Tetsuji Hayashi. L'album vede anche la partecipazione di due grandi musicisti come il tastierista Jun Sato e il chitarrista fusion Masaki Matsubara. Timely si apre con Cat’s Eye, brano che sarà la sigla dell’omonimo anime (niente a che vedere, per fortuna, con la nostrana Occhi di gatto, provare per credere) ma è una falsa partenza; è con il funk in stile EW&F Windy Summerche l’album prende il volo, e noi con lui. Timely fonde melodie accattivanti, ritmi danzerecci, e testi che sussurrano storie d’amore e libertà. La voce di Anri, leggera ma carica di emotività, è la colonna portante dell’album, sa dosare dolcezza e sensualità in un album suonato magistralmente, con bassi micidiali, un groove fantastico dei fiati, dove non ci si annoia mai e che celebra con rara intensità la gioia di vivere.
Timely, grazie al rinnovato interesse per il City Pop è diventato nel corso degli ultimi quindici anni un cult a livello globale, un album che ha definito l’estetica del City Pop: un mix di lusso, nostalgia e desiderio d’evasione, perfetto per chi sogna una vacanza che non finisce mai.
Anri continua a esibirsi dal vivo e ha conquistato anche il pubblico occidentale, mantenendo intatta la sua passione per la musica.
Seconda parte ed ultima parte della puntata dedicata a Minako Yoshida
Nel 1981 e nel 1982 Yoshida pubblica due album molto simili tra loro, contenenti alcune canzoni che sono diventate dei classici del City Pop influenzato dal funk. Questo periodo segna l’apice della sua carriera come artista funk, al punto che Yoshida viene soprannominata “la regina del funk”.
Monsters in Town - (1981, Alfa)
Monsters in Town, (prodotto e arrangiato dalla stessa Yoshida) pubblicato nel 1981, si apre con la stratosferica Town, un brano funk caratterizzato da notevoli aperture melodiche e da una lunga coda strumentale arricchita da un assolo di sax in stile hard-bop. Questo pezzo, rimasto troppo a lungo sconosciuto al pubblico occidentale, vale da solo l’intero album. Tuttavia, il resto del disco, pur di ottima fattura, non raggiunge lo stesso livello.
Il prosieguo dell’album è dominato da ballad e brani mid-tempo, tra cui spiccano Lovin’ You e, ancora di più, Black Eye Lady, in perfetto stile westcoast. Sono brani apprezzabili, ma dopo un inizio così potente ci si aspetterebbe una maggiore continuità nella direzione funk, che comunque si ritrova in alcuni episodi successivi. Ad esempio, Monster Stomp è un altro ottimo esempio di funk giapponese dal ritmo “strascicato”, così come Knock Knock, che segue la stessa linea.
Light’n’Up - (1982, Alfa)
Nel 1982 esce Light’n’Up, album in parte registrato tra Tokyo e New York, che si apre in grande stile con il brano omonimo. Questo pezzo straordinario mescola disco, funk e melodia, mantenendo un’anima profondamente giapponese. Il brano è di per sé cosmopolita e urbano nel miglior senso del termine, indipendentemente dalla presenza dei Brecker Brothers, che tuttavia aggiungono ulteriore spessore alla composizione. Un dettaglio che trovo irresistibile è il flauto, suonato all’unisono con gli archi, che interviene al termine di ogni strofa, regalando al pezzo una potenza unica.
Anche solo per la forza di questo brano, Light’n’Up sarebbe un album da ricordare, ma, come in Monster in Town, a sparigliare le carte arrivano i brani mid-tempo. Rispetto all’album precedente, questi pezzi si distinguono per una maggiore aderenza allo stile yacht-rock e risultano più equilibrati e centrati. Un contributo decisivo arriva dal sax di Michael Brecker, che offre un lavoro semplicemente memorabile. In tal senso, consiglio vivamente di ascoltare 頬に夜の灯 e 風, due brani che ne sono un perfetto esempio. Il gospel torna a fare capolino in Morning Prayer, mentre il funk riemerge in Reflection, un altro ottimo brano influenzato dalla migliore disco. Ma è nella conclusiva Alcoholler che siamo davanti ad un autentico capolavoro di funk cosmico: sei minuti di pura energia, con passaggi dissonanti e un arrangiamento audace che si muove tra groove ipnotici e sperimentazioni sonore, chiudono l’album con un’esplosione di creatività.
Minako Yoshida è una delle mie artiste preferite nell’ambito del City Pop, una musicista che, nella sua lunga carriera, ha esplorato i generi più disparati.
Insomma, con Minako Yoshida è difficile annoiarsi: ogni suo disco è una scoperta.
Nata a Saitama il 7 aprile 1953, Yoshida si avvicinò alla musica durante gli anni del liceo, dove conobbe i musicisti Haruomi Hosono e Takashi Matsumoto, i quali le consigliarono di dedicarsi alla musica a tempo pieno. Nel 1969 formò una band, i Puff, che però ebbe vita breve. Dal 1973 iniziò la sua carriera da solista con un album prodotto da Haruomi Hosono, dando il via a una lunga serie di lavori: sono infatti ventitré gli album pubblicati da Yoshida, l’ultimo dei quali risale al 2019.
Minako Yoshida ha avuto due grandi passioni musicali: Carole King e, soprattutto, Laura Nyro. Tuttavia, nel corso del tempo, è riuscita con ottimi risultati a cimentarsi anche in brani funk e pop, caratterizzati da influenze West Coast.
In particolare, analizzeremo quattro album, che considero tra i migliori della sua discografia, per osservare come si sia evoluto il suo percorso artistico.
Twilight Zone - (1977, RCA)
Nel 1977 Minako Yoshida pubblica Twilight Zone, (prodotto da Yoshida insieme al grande Tatsuro Yamashita) un album straordinario e il primo in cui l’artista riesce a realizzare pienamente la sua visione musicale, componendo brani influenzati dal soul, dal jazz e dal gospel. La somiglianza con le opere di Laura Nyro, in particolare con i suoi primi album, è evidente e rappresenta uno degli elementi distintivi del disco.
L’album è composto interamente da brani originali di Yoshida, caratterizzati da una base pianistica e da un’atmosfera introspettiva, arricchita da magnifiche aperture soul. Fiati e arrangiamenti orchestrali contribuiscono a creare un’intensità emotiva e un pathos che permeano tutto il lavoro. Per gli appassionati di Laura Nyro, Twilight Zone è un ascolto imprescindibile: difficilmente un’artista è riuscita a catturare così da vicino l’essenza della musica della cantautrice americana.
È difficile consigliare brani specifici, poiché ogni traccia brilla di luce propria. Tuttavia, meritano una menzione speciale: 駆けてきたたそがれ (Runner), intrisa di un’anima soul irresistibile; メロディー (Melody), con il suo sottile tocco gospel, dove organo e pianoforte si intrecciano alla perfezione con la voce di Yoshida; e soprattutto 恋は流星 (Shooting the Star of Love), scelto anche come singolo, un brano pop-soul straordinario e uno degli esempi migliori del City Pop.
Monochrome - (1980, Alfa)
Saltiamo a piè pari il 1978, anno in cui Yoshida pubblica l’album Let’s Do It, un lavoro fortemente influenzato dalla disco ma non del tutto ascrivibile a quel genere (altrimenti non sarebbe City Pop). Un album piacevole, senz’altro, ma preferisco concentrarmi su Monochrome, pubblicato nel 1980, che considero il capolavoro di Yoshida nonché uno dei migliori esempi assoluti del City Pop.
Come possiamo ascoltare, il genere è estremamente sfaccettato e capace di inglobare molteplici influenze, non essendo stato unicamente appannaggio dei cosiddetti “pop idol”. In Monochrome, le canzoni si sviluppano su una base pianistica; tuttavia, mentre in Twilight Zone il riferimento imprescindibile era Laura Nyro, in questo disco Yoshida affina ulteriormente la sua arte, consegnandoci un lavoro profondamente personale e introspettivo, arricchito da canzoni memorabili.
L’album è realizzato con l’apporto di soli sei musicisti, che riescono a catturare perfettamente le atmosfere notturne del disco, dove il pop si intreccia sapientemente con sfumature jazz da club, perfette per i nottambuli. Tutti i brani di Monochrome sono firmati da Yoshida, ad eccezione di Rainy Day, co-scritto insieme a Tatsuro Yamashita. Quest’ultima traccia è davvero straordinaria, con un mood notturno di grande suggestione. L’album contiene anche dei brani dove il funk inizia a fare capolino, come in Black Moon (notare le somiglianze con Going Back To My Roots) il blues come si può ascoltare nella ballad Sunset, poi ancora atosfere alla Carole King come ascoltabile in Airport e Mirage. Il funk ritorna in bello stile in Midnight Drive, un antipasto di quello che Yoshida realizzerà negli anni successivi.
Interamente prodotto da Yoshida, Monochrome, a costo di ripetermi, è un fottuto capolavoro.
Il panorama del retro-soul si arricchisce di un nuovo nome: Yufu, un’artista originario di Taiwan che trascorre gran parte del suo tempo in Giappone. Yufu ha pubblicato il suo primo album appena tre giorni fa, e questo debutto, intitolato Heal Me Good, è un autentico piacere per gli amanti del soul.
Yufu ha iniziato la sua carriera musicale in una band di rock psichedelico, i Crocodile. Tuttavia, il fatto di essere cresciuto in una casa dove i genitori erano grandi appassionati di soul anni ‘70 ha avuto un’influenza decisiva su di lui. Ascolto dopo ascolto, Yufu si è avvicinato sempre di più a quel mondo musicale, fino a sviluppare una vera e propria passione per il soul, che lo ha portato ad abbandonare sia la band che la psichedelia.
Devo ammettere che ho sempre avuto qualche riserva verso il retro-soul, un genere che spesso mi è parso inflazionato e talvolta ridotto a semplici esercizi di stile. Eppure, l’ascolto di Heal Me Good mi ha piacevolmente sorpreso. Yufu riesce a fondere influenze di giganti come Stevie Wonder e il Marvin Gaye degli anni ’70, affiancandovi altri riferimenti significativi come Timmy Thomas e Tyrone Davis, aggiungendo però una sua cifra personale, che dona freschezza e autenticità al progetto.
L’album è composto da dieci brani che si alternano tra tracce funk energiche e momenti più riflessivi, mantenendo sempre un’invidiabile eleganza. La sequenza scorre senza intoppi dall’inizio alla fine, e per uno scettico come me questo è già un risultato notevole.
Heal Me Good merita decisamente un ascolto, potrebbe sorprendervi quanto ha sorpreso me.
Riascoltando Venus in Cancer, sesto album del chitarrista Robbie Basho pubblicato nel 1969, è difficile non notare come, in un certo senso, egli abbia anticipato alcune sonorità che sarebbero diventate popolari a partire dagli anni ’80. Nato nel 1940 a Baltimora, Basho era pianista, cantante, ma soprattutto un maestro della chitarra a corde d’acciaio, strumento che suonava con uno stile talmente peculiare e unico da distinguerlo nettamente dai chitarristi più celebri della sua epoca.
Il nome Basho era uno pseudonimo, scelto durante gli anni universitari in omaggio al poeta giapponese Matsuo Bashō, segno del suo profondo interesse per l’arte e la cultura orientale. Il suo approccio musicale si radicava nello stile definito “American Primitive”, ma lo ampliava in modo significativo, integrandovi influenze persiane, indiane e giapponesi. In questo senso, si può considerare Basho un precursore della musica new age, pur discostandosi profondamente dal minimalismo e dalla rilassatezza tipici di quel genere: il suo modo di suonare la chitarra era infatti molto dinamico e virtuosistico. Allo stesso modo, il suo uso del canto – espressivo e spirituale – mirava a creare stati emotivi profondi attraverso il suono, anticipando in parte l’idea di un’esperienza musicale trascendente.
Non è azzardato sostenere che l’arte di Basho abbia prefigurato anche alcune delle sonorità tipiche dell’etichetta ECM. Basho mescolava tradizioni culturali diverse, avvicinandosi per certi versi all’approccio di un musicista come Jan Garbarek. Entrambi condividevano la ricerca del potere evocativo della musica, ma Basho portava questa ricerca nel campo della chitarra a 12 corde, con accordatura aperta, tipica della musica indiana. A differenza della perfezione sonora tipica dei dischi ECM, però, le produzioni di Basho risultavano meno sofisticate sul piano tecnico, il che non sminuiva minimamente il valore pionieristico della sua opera. Anzi, Basho ha aperto la strada a un approccio globale e spirituale alla musica, come dimostra proprio Venus in Cancer.
Va detto, però, che questo non è un disco facile. Non è un ascolto leggero, non è un album modaiolo, e non è il tipo di musica che si può relegare a uno sfondo da apericena o, peggio, da compilation in stile Buddha Bar. Venus in Cancer richiede un approccio meditativo, quasi devozionale, per entrare in sintonia e comunione con l’universo musicale di Basho. Ma una volta entrati, difficilmente se ne esce: è un’esperienza che rimane.
Per chi volesse avvicinarsi a Basho in modo graduale, consiglio di partire da uno dei brani più “accessibili” dell’album: Song for the Queen. Qui Basho si avvale dell’accompagnamento di Moreen Libet alla viola e Kreke Ritter al corno francese, creando un’intensità sonora che rende questo pezzo una porta d’ingresso ideale nel suo mondo.
Robbie Basho ha lasciato questa valle di lacrime il 28 Febbraio 1986.
Terza ed ultima parte della puntata dedicata a Eiichi Ohtaki
Let’s Ondo Again - (1978, Niagara Records)
Nel 1978 Ohtaki pubblica Let’s Ondo Again, a nome Niagara Fallin’ Star, un album che insiste sul genere Ondo. Il disco si apre con un brano che celebra questa tradizione musicale, seguito da un brano che mischia r’n’r, tango e musiche da cabaret. Non mancano accenni a Purple Haze di Hendrix, muggiti, frammenti della Marsigliese, dell’inno americano e di quello tedesco, con le note della serie TV Twilight Zone a chiudere il tutto. Il risultato? Un’esperienza sonora caotica, ma con un suo senso, come una discesa su uno scivolo tortuoso. Non bastasse questo arriva un pezzo r’n’r che culmina in un’interpretazione da Elvis in stato di ebrezza. Non sorprende che il disco sia ancora più invendibile del precedente, al punto da mandare su tutte le furie la Columbia, che rompe il contratto con Ohtaki.
Senza un’etichetta alle spalle, l’artista si ritira momentaneamente dalle scene, dedicandosi alla composizione e alla produzione per altri. Sembra avviato su tutt’altra strada, ma nel 1981 tornerà con un album destinato a diventare il simbolo del City Pop e il disco più venduto della storia della musica giapponese.
A Long Vacation - (1981, Niagara Records)
Dopo una pausa discografica durata tre anni e un disco non pubblicato nel 1978 ma uscito postumo nel 2016, Ohtaki pubblica, il 21 marzo 1981, A Long Vacation, un album che Federico Romagnoli di Ondarock ha definito «un disco che, per impatto sulla cultura giapponese, può essere equiparato a ciò che significò per quella italiana La Voce del Padrone di Battiato». In ALong Vacation, Ohtaki mette a fuoco come mai prima le sue ossessioni per il pop americano degli anni ’50 e ’60, realizzando un vero e proprio capolavoro: un successo straordinario in Giappone con un milione di copie vendute all’epoca, più un altro milione negli anni successivi.
In questo album, Ohtaki riesce a entrare in sintonia con il pubblico grazie a canzoni che, pur ispirandosi al passato, risultano moderne e perfettamente figlie del loro tempo, lasciando ancora oggi increduli per la loro attualità. Gran parte del merito per l’eccezionale qualità del disco va anche ai musicisti coinvolti: tra gli altri, Haruomi Hosono al basso, Tatsuo Hayashi alla batteria, Makoto Matsushita e Shigeru Suzuki alle chitarre, Akira Inoue e Fumitaka Anzai alle tastiere, e Masataka Matsutoya come direttore d’orchestra.
L’inizio è folgorante: con 君は天然色 ci si ritrova immersi nel wall of sound, come se Phil Spector si fosse manifestato in sogno a Ohtaki per guidarlo sulla strada giusta. Dai solchi sembra quasi che le Ronettes, rimaste intrappolate nel vinile, ne escano con una forza dirompente.
Velvet Motel attacca con un suono che ricorda un clavicembalo, proponendo cambi ritmici degni dei migliori Steely Dan, come se questi ultimi avessero suonato negli anni ’50. Non c’è tempo per riprendersi dallo stupore perché nel brano successivo, カナリア諸島にて, ritorna il wall of sound con un attacco bump-da-bump alla Ronettes, e un arrangiamento orchestrale che ci trasporta nei film di Douglas Sirk. Ma Ohtaki sorprende ancora: estrae un ritornello che lascia a bocca aperta per la sua bellezza e la perfetta fusione con il resto del brano. Qui Ohtaki realizza un vero capolavoro, che però non sarà l’unico di questo disco straordinario. Con Pap-Pi-Doo-Bi-Doo-Ba物語, sembra di tornare ai tempi degli album della serie Niagara, ma dura solo un attimo, il tempo di uno scherzo. Con 我が心のピンボール, si chiude il lato A con il brano più propriamente rock del disco: l’uso delle chitarre richiama qualcosa che appartenne al glam rock, mentre quel piano di sottofondo, suonato in stile anni ’50, aggiunge un tocco nostalgico.
Si gira il lato e parte 雨のウェンズデイ(Ame no Wednesday). Qui vorrei fermarmi per rimettere la canzone da capo non una, ma almeno dieci volte. Chi ama il pop, quello che si può definire una vera forma d’arte, rimane spiazzato davanti a un brano del genere. Chi si dichiara amante del pop ma non ha mai ascoltato questa canzone, ha una lacuna enorme che andrebbe colmata al più presto. Avete mai sentito un brano in cui convivono il wall of sound, Brian Wilson e Burt Bacharach tutti insieme? Ne dubito. Eppure, qui li ritroverete.
Con 雨のウェンズデイ(Ame no Wednesday), ci troviamo di fronte a un gioiello per cui le parole sono superflue. Davvero, non resta che ascoltarlo.
Pensate sia finita qui? Assolutamente no! Arriva infatti スピーチ・バルーン, una ballad che ti prende il cuore, te lo strizza e ti lascia senza fiato, giusto il tempo di renderti conto di quanto ogni nota sia perfettamente calibrata. Ohtaki dosa melodia e arrangiamento con precisione chirurgica, trasformando il brano in un’esperienza emotiva unica, capace di accompagnarti a lungo anche dopo l’ultima nota. Dentro ci trovi malinconia e commozione, dosate con una delicatezza straordinaria.
E poi, di nuovo, Phil Spector e le Ronettes con 恋するカレン, un altro pezzo rétro ma di una modernità che chi oggi si crogiola nel retro-futuro dovrebbe ascoltare attentamente per imparare la lezione. E se questo non bastasse, con FUNX4 veniamo catapultati dentro il Brill Building, ai tempi in cui Carole King scriveva per Neil Sedaka (o in casa di Bob Gaudio quando Frankie Valli e i Four Seasons provavano le loro canzoni) ma con una linea di basso attualissima e martellante.
Il decimo brano in scaletta ci porta invece in un’atmosfera cinematica, quasi da spaghetti western, con una chitarra suonata come se i Tornados avessero inciso le colonne sonore dei western di Sergio Leone e una produzione che richiama le invenzioni di Joe Meek. Insomma, 40 minuti volati in un attimo, e la sensazione è quella di voler ricominciare subito il disco da capo.
Eppure, chi lo avrebbe mai detto? Dopo una serie di dischi semi-sperimentali, con Ohtaki snobbato dal pubblico, scaricato dalla casa discografica e con vendite così scarse da non permettersi nemmeno una ciotola di ramen, è riuscito a realizzare un capolavoro di questa portata.
A Long Vacation è un disco imprescindibile: è Ohtaki che ha assimilato trent’anni di musica popolare americana e li ha trasformati in un monumento di modernità assoluta. È, allo stesso tempo, una lezione di stile e di sostanza, la dimostrazione perfetta di come il pop possa essere insieme raffinato e immortale.
Each Time - (1984, Niagara Records)
Passano tre anni, e Ohtaki ritorna sulle scene con l’album Each Time. Musicalmente, il disco segue le orme del precedente A Long Vacation e, come quest’ultimo, raggiunge il primo posto nella classifica Oricon. Complessivamente, però, non riesce a eguagliarne i numeri. Ohtaki si conferma il “Phil Spector giapponese”, con il wall of sound come elemento distintivo che attraversa tutto il lavoro. Questo si combina con barocchismi pop e una maniacale attenzione ai dettagli sonori, fondendo melodie nostalgiche e arrangiamenti complessi in una sintesi perfetta tra tradizione e innovazione.
Pur essendo un ottimo album, le canzoni di Each Time non raggiungono la bellezza di quelle di A Long Vacation. Dischi di questo livello, però, oggi sono rari. Tra i brani spicca Bachelor Girl, un momento di pop enfatico che sembra nato da una collaborazione immaginaria tra i Beach Boys e le Ronettes. Non manca il pop perfetto: 銀色のジェット è caratterizzato dal canto malinconico di Ohtaki e da un raffinato arrangiamento orchestrale. In ガラス壜の中の船, invece, Ohtaki spinge sull’acceleratore della melodia, riuscendo comunque a evitare manierismi o derive melense.
Each Time rappresenta l’ultimo capitolo della carriera solista di Ohtaki. Dopo questo lavoro, preferisce restare dietro le quinte, dedicandosi alla produzione, alla composizione, alla rimasterizzazione degli album della Niagara Records e alla ricerca sulla storia del pop.
Eiichi Ohtaki morì improvvisamente nel 2013, da solo in casa, soffocato da un pezzo di mela. Rimane il ricordo di un musicista leggendario, nel vero senso della parola, ancora troppo poco riconosciuto dalla critica musicale occidentale. È ora che la sua grandezza venga celebrata anche al di fuori del Giappone.
Seconda parte della puntata dedicata a Eiichi Ohtaki
Niagara Moon - (1972, Niagara Records)
Nel 1975 viene pubblicato Niagara Moon, il secondo album solista di Ohtaki e il primo prodotto dalla neonata etichetta Niagara Records. In quest’opera, Ohtaki inizia a esplorare e rielaborare la musica pop americana della prima metà degli anni ’60. In qualità di proprietario dell’etichetta, gode di totale libertà creativa e ne approfitta per sperimentare con audacia: gioca con il rock’n’roll, introduce marcette da circo, richiama sonorità esotiche ispirate alle isole tropicali, e si cimenta in omaggi e imitazioni di artisti come Dr. John ed Elvis Presley. Il risultato è un collage musicale ricco di intuizioni, in cui frammenti di canzoni si mescolano in un pastiche volutamente imprevedibile. Ohtaki, incurante della possibile reazione del pubblico, crea un’opera che non ottiene il successo commerciale sperato, portando a uno dei primi insuccessi di vendite e mettendo già a rischio la stabilità economica della Niagara Records, che infatti nel 1976 sarà trasferita alla Columbia Records. Nonostante ciò, Niagara Moon è un album che brilla per la sua genialità e originalità, sospeso tra sperimentazione e follia. Non è affatto fuori luogo il paragone tra Ohtaki e Brian Wilson, entrambi innovatori in grado di ridefinire i confini della musica pop.
Niagara Triangle Vol. 1- (Niagara Records)
Nel 1976 esce Niagara Triangle Vol. 1, un album che vede Ohtaki unirsi in trio con Tatsuro Yamashita e Ginji Ito. A differenza di Niagara Moon, questo disco è più accessibile e presenta una suddivisione equilibrata dei contributi tra i tre artisti: due brani scritti, composti e arrangiati da Eiichi Ohtaki, quattro da Tatsuro Yamashita e altri quattro da Ginji Ito. Da rimarcare che nel disco suonano artisti che avranno delle grandi carriere in futuro, come Haruomi Hosono al basso, Tatsuo Hayashi alla batteria, Shigeru Suzuki alla chitarra, Masataka Matsutoya e Riyuchi Sakamoto alle tastiere.
L’album è fortemente influenzato dalle sonorità americane, riflettendo le passioni musicali del trio. Tra i generi rappresentati troviamo southern rock, R&B, West Coast e, immancabilmente, il doo-wop. Nella riedizione in CD viene incluso un brano ispirato alla musica tradizionale di Okinawa, che sarebbe poi diventata una futura ossessione per Ohtaki. Questo brano non era stato inserito nella versione originale in vinile. Nonostante la qualità delle canzoni e l’eccellente esecuzione, Niagara Triangle Vol. 1 si rivelò l’ennesimo flop commerciale per Ohtaki. Tuttavia, questo insuccesso non lo scoraggiò e lo spinse a concentrarsi sulla realizzazione del suo terzo album solista.
Go! Go! Niagara - (1976, Niagara Records)
Sempre nel 1976 viene pubblicato Go, Go, Niagara, terzo album solista di Eiichi Ohtaki, in cui ritornano le sue ossessioni per un’America idealizzata e cristallizzata negli anni ’50 e ’60. L’album nasce come un concept ispirato alle stazioni radio americane degli anni ’50. Nel 1976, infatti, Ohtaki ebbe l’occasione di lavorare come DJ in una stazione radio giapponese, dove proponeva brani di quell’epoca. A differenza di Niagara Moon, però, le canzoni qui non si presentano più come semplici bozzetti, ma acquisiscono una maggiore compiutezza e solidità. Ohtaki riesce a creare brani originali che sembrano provenire direttamente dal passato, realizzando uno straordinario esperimento di retro-futuro.
La forza di Ohtaki risiede nella sua capacità di rendere credibili sonorità vintage negli anni ’70, un periodo in cui il revival musicale del passato era ancora lontano dall’affermarsi. Le influenze sono molteplici e spaziano dal wall of sound a Frankie Lymon, dal mambo al twist, senza dimenticare l’immancabile doo-wop. Ogni brano è pervaso dalla sua genialità, ma, purtroppo, anche Go, Go, Niagara si rivelò un insuccesso commerciale.
Il pubblico giapponese dell’epoca, poco incline a seguire le sperimentazioni di un artista visionario, non colse appieno l’innovazione di Ohtaki, a cui sembrava ancora mancare quel quid necessario per conquistare un pubblico più vasto.
Niagara CM Special - (1977, Niagara Records)
Nel 1977 Ohtaki pubblica una raccolta di brani creati per jingle pubblicitari, Niagara CM Special, in cui possiamo ascoltare le sue “acrobazie” sonore, che sembrano quasi anticipare ciò che i Residents realizzeranno in Commercial Album. Con una differenza fondamentale: i brani di Ohtaki vennero realmente utilizzati nelle pubblicità. La raccolta include ben 42 estratti, brevi accenni sonori che mescolano sperimentazione e ironia, evidenziando l’abilità di Ohtaki nel trasformare semplici frammenti in miniature sonore che non passano inosservate tra gli ascoltatori più scafati.
Niagara Calendar 78 - (1977, Niagara Records)
Sempre nel 1977 esce Niagara Calendar 78, un album in cui ogni brano è dedicato a un mese dell’anno. Ohtaki prosegue imperterrito nel seguire il proprio estro musicale, senza curarsi troppo né del gusto del pubblico né delle aspettative della casa discografica. Il risultato segna comunque un passo avanti rispetto a Go, Go, Niagara, almeno per quanto riguarda le melodie, che risultano più orecchiabili.
Il disco si apre con un r’n’r dove Ohtaki si diverte a mescolare Gene Vincent con Elvis, per poi regalarci una splendida ballad dedicata al mese di febbraio, Blue Valentine’s Day, impreziosita da una languida chitarra slide, che rappresenta senza dubbio uno dei momenti più alti del disco. A marzo troviamo un brano in stile merengue, mentre aprile, ispirato alla passione di Ohtaki per il baseball, è caratterizzato da un sound southern rock.
I pezzi forti dell’album sono i mesi di luglio e agosto. Per luglio, Ohtaki mette in campo tutto il suo amore per i Beach Boys, con un brano in stile surf che richiama le armonizzazioni dei fratelli Wilson e lo stile chitarristico di Dick Dale, creando una geniale sintesi tra i due universi sonori. Agosto invece è rappresentato da una classica ballad terzinata, malinconica e intrisa di rimpianto per l’estate che volge al termine.
Settembre vede Ohtaki sperimentare un’inedita fusione tra Ondo, la musica tradizionale di Okinawa, e il reggae: un mix mai sentito prima, che sorprendentemente funziona. Ottobre è un omaggio al sound di Bo Diddley, mentre novembre ci porta in atmosfere cinematografiche, con un brano che sembra tratto dalla colonna sonora di un film di samurai. Dicembre, prevedibilmente, chiude in grande stile con una canzone natalizia definitiva, che mescola Stille Nacht, White Christmas e Jingle Bells. Il brano inizia come una marcetta per poi evolversi in pieno stile anni ’50, evitando però melensaggini. In chiusura, Ohtaki aggiunge un’appendice a cappella in stile doo-wop, dedicata al capodanno.
L’album è ricco di idee, forse persino troppo per un’audience poco incline a sperimentazioni, anche se non particolarmente complesse. Il risultato è un autentico flop: il disco vende pochissimo e non entra in classifica. Ma pensate che Ohtaki si lasci scoraggiare? Nemmeno per sogno.