Non ho intenzione di scrivere il solito “coccodrillo” in occasione della scomparsa di Roy Ayers – ne troverete a iosa in rete, tutti dello stesso tenore. L’unica cosa in comune con quegli articoli, presumo, è la descrizione di Ayers come un innovatore del jazz, intrecciato con massicce dosi di funk, precursore dell’Acid Jazz e una sorta di semi-dio per i beatmaker. Ebbene, tale “coccodrillo” può bastare. Per ricordarlo al meglio, invece, desidero parlare di un album – non quello con la copertina dove il colore giallo è preponderante, di cui tutti sono più o meno a conoscenza (basti pensare all’ex vicepresidente degli Usa, Kamala Harris, che ne fa sfoggio, immortalata in un video mentre usciva da un negozio di dischi) – bensì di He’s Coming, pubblicato nel 1972 e grandioso esempio di jazz/funk spirituale.
Ispirato dal musical Jesus Christ Superstar, omaggiato da Ayers con la cover di I Don’t Know How To Love Him, l’album presenta un Ayers con i suoi Ubiquity al culmine della forma, in cui la sua ricerca musicale si intreccia con una profonda riflessione sulla fede e sulla giustizia sociale. Ayers non adotta un’espressione religiosa convenzionale, bensì fonde la sua spiritualità con un messaggio sociale che risuona fortemente nel contesto dei primi anni ’70, segnato dalle lotte per i diritti civili e da una crescente coscienza afrocentrica.
Se ad esempio ascoltiamo We Live In Brooklyn, Baby ci troveremo ben poco di spirituale in senso stretto, ma il ritratto di una realtà ben più terrena, dove Ayers narra le difficoltà della comunità nera attraverso un groove ipnotico che sarà manna dal cielo per i futuri beatmaker e fonte di ispirazione per generazioni di musicisti hip-hop. Non sembri una forzatura abbinare spiritualità con la realtà sociale, anzi; tale connubio rappresenta il cuore dell’album, un insieme in cui la fede, per Ayers, non è un rifugio astratto, ma diventa una forza di cambiamento da far marciare di pari passo con le istanze sociali.
Musicalmente, l’album rappresenta un perfetto equilibrio tra il calore avvolgente del vibrafono di Ayers, i ritmi incalzanti del funk e un senso di libertà tipico del jazz, e questo grazie anche ai musicisti che collaborarono con Ayers qui al massimo della forma: Sonny Fortune al sax, John Williams al basso, Harry Whitaker alle tastiere e Billy Cobam alle batterie. Quello che ascoltiamo nell’album va oltre la perizia tecnica, si percepisce una qualità quasi estatica, tale da portare l’ascoltatore in un stato di rapimento. Ma, è bene ribadirlo, oltre all’atmosfera meditativa, qui dentro si sta con i piedi ben piantati in terra, nella consapevolezza che cielo e terra non sono poi così distanti.
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