Can’t Lose My (Soul) - Annie & The Caldwells (2025, Luaka Bop)
Annie & The Caldwells hanno un approccio alla musica simile a quello dei giocatori di rugby di un tempo, prima dell’avvento del professionismo. In primis, qui abbiamo una famiglia di West Point, Mississippi, che, dalla voce agli strumenti, funziona come una squadra: la mamma, Annie Caldwell, è la cantante, il marito, Willie Joe, suona la chitarra elettrica, le figlie Deborah e Anjessica insieme alla figlioccia Toni Rivers sono le coriste, il figlio maggiore, Willie Jr, suona il basso, mentre il minore, Abel Aquirius, è alla batteria. Come i vecchi rugbisti che giocavano solo il sabato, Annie & The Caldwells si esibiscono esclusivamente nei weekend; hanno calcato anche i palchi di alcuni festival musicali della vecchia Europa e, nei restanti giorni della settimana, si dedicano a svariate attività – chi guida carrelli elevatori, chi insegna, chi fa l’infermiera, chi si occupa di messe in piega. Insomma, con quarant’anni di carriera alle spalle, la band è riuscita solo ora a pubblicare il loro primo album, Can’t Lose My (Soul), un disco nato in circostanze davvero fortuite.
In pratica, ecco come sono andate le cose. Nel 1974 Annie Caldwell scrisse un brano per gli Staples Jr Singers, Waiting for the Trumpet To Sound, pezzo pubblicato da un’etichetta semisconosciuta del Mississippi; per caso lo ascoltò il DJ soul Greg Belson, che lo incluse in una sua compilation del 2019. Il brano fu poi casualmente ascoltato dall’ex frontman dei Talking Heads, David Byrne, il quale, rimasto entusiasta, fece in modo che la sua etichetta Luaka Bop pubblicasse prima la compilation, poi l’album di esordio degli Staples Jr Singers e, infine, telefonò ad Annie Caldwell dichiarandole il proprio interesse per pubblicare anche il primo album della band di famiglia.
Finito questo preambolo, veniamo al disco, che è ciò che mi interessa maggiormente. Innanzitutto, la band è quanto di più lontana dal dare l’impressione di amatorialità, ma soprattutto le canzoni, nella loro parte musicale, suonano attuali: non portano quella patina di posticcio e di antiquariato da mercatino dell’usato che contraddistingue la maggior parte degli album retro soul, quei lavori che sanno di finto e costruito, volti a convincerti di stare ascoltando registrazioni del secolo scorso. La parte vocale, invece, ci trasporta nel gospel del sud degli Stati Uniti, pur allontanandosi dalle solite canzoni con cori in stile natalizio o da chiesa; nonostante tutto, l’album è stato registrato interamente dal vivo, senza pubblico, all’interno di una chiesa di West Point, Mississippi. Il risultato è un disco che parla si di sacro, ma in un modo del tutto disinvolto. Nella prima parte troviamo il torrido soul sudista e un soul declinato in disco, tanto da ricordarci come stile gli album solisti di Chaka Khan degli anni ’70, mentre nella seconda ci addentriamo in territorio gospel – fortunatamente ben lontano dai sermoni che possiamo immaginare provenire da preti invasati –, dove non si prega, ma si racconta il dolore vissuto e i momenti difficili, (ad esempio in Dear Lord si ringrazia il signore dopo che la famiglia Caldwell è stata salvata da un’incendio) il tutto condito da un messaggio di speranza. Sono brani intrisi di torrido funk, con parti di chitarra elettrica capaci di risvegliare i morti, tali da convertire anche i peggiori miscredenti, ma, anche se della fede non ve ne importa un accidente, basti ascoltare l’album per diventare fedeli del verbo di Annie & The Caldwells.
Per il momento, ci accontentiamo del fatto che Can’t Lose My (Soul) sia, per adesso, il disco soul dell’anno, per distacco, come un rugbista che, preso l’ovale, scarta gli avversari e se ne va solitario in meta, depositando il pallone in mezzo ai pali. Infine, una menzione speciale all’immagine di copertina, il perfetto biglietto da visita di ciò che ci apprestiamo ad ascoltare.
Voto 10/10
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