mercoledì 30 novembre 2011

CURTIS MAYFIELD: FREDDIE'S DEAD, 1972


Non ho mai visto il film "Superfly", ma di certo, mi è bastato ascoltarne la colonna sonora per entrare dentro la storia di questo caposaldo della blaxploitation. Ma anche se la pellicola non fosse mai esistita, il disco si reggerebbe in piedi da solo, anzi, lo fa' benissimo anche così. "Superfly", prima di essere un semplice accompagnamento sonoro è prima di tutto il capolavoro assoluto del supereroe Curtis Mayfield, il concept di risposta al "What's Going On" di Marvin Gaye, dove là si chiedeva cosa stesse accadendo in città, Curtis lo racconta senza tante perifrasi. Accadeva che la droga e lo spaccio avevano invaso i ghetti, insieme con la rabbia dei neri per una condizione di vita non più sostenibile, e Curtis ce lo racconta con il suo falsetto a ritmo di funk, accompagnato da basso e percussioni, fiati e chitarre wah wah.
"Freddie's Dead" è il lamento per la morte di Fat Freddie, un personaggio del film che viene investito da un'automobile. Il brano, in versione strumentale, ricorre in diverse parti della pellicola tanto che nella sua versione singola verrà sottotitolata come "Theme from Superfly", anche se la title track del disco non è questa. Il singolo, in versione cantata, riscosse un buon successo di vendite, arrivando al numero quattro della classifica statunitense.
Curtis Mayfield nonostante il successo critico del disco, sconterà con la censura da parte dei media la crudezza dei testi e la sua militanza politica.
Uno dei dischi faro degli anni '70, senza alcun dubbio.

lunedì 28 novembre 2011

STEELY DAN: JOSIE, 1977


Trenta musicisti coinvolti, nottate passate a riascoltare un fraseggio di chitarra, un piatto di batteria fatto costruire apposta per suonare una determinata nota su un determinato passaggio di una determinata canzone, una parte per sax suonata da Wayne Shorter scritta come un assolo improvvisato e più autentica di un'improvvisazione - tutto vero, Wayne Shorter si vide recapitare la sua parte per sax nel brano "Aja" da Fagen e Becker, logico poi che li mandò bellamente affanculo dicendo loro che lui, jazzista, avrebbe improvvisato e non avrebbe mai suonato parti scritte; il bello è che dopo aver ascoltato il brano se ne tornò dai due dicendo che erano si, due figli di puttana, ma quel che avevano scritto per lui era così perfetto da superare qualsivoglia improvvisazione da lui pensata. Di "Aja" si potrebbe scrivere un libro soltanto con gli aneddoti, oggi però voglio focalizzarmi su "Josie", pezzo posto a conclusione del secondo lato del disco (già, i vinili avevano due lati da suonare, e ciò aveva un senso anche per la costruzione di un album a regola d'arte). Dunque, parlavamo di "Josie". Se volete cercare una canzone che faccia da esempio su cosa sia il funk, questa ne è l'esempio più calzante. Costruita su un groove micidiale da parte di Jim Keltner alla batteria e Chuck Raney al basso, il brano prosegue con le ricamature alla chitarra di Larry Carlton, il tutto a sostenere un testo di Fagen, declamato come una storia romantica ma che invece è una storia che parla di degrado urbano, abusi sessuali e droga, una delle canzoni più truci mai scritte dagli Steely Dan.
Tra le altre curiosità, gli Steely Dan erano il gruppo prediletto di Frank Zappa, che già prima della realizzazione di "Aja" ne decantò le doti.
Curioso che abbia vinto un solo Grammy Award all'epoca, come "miglior Best Engineering album non classical"e - citando il critico Don Breithaup - sarebbe come se agli affreschi della Cappella Sistina avessero dato un premio come miglior "finitura opaca".

sabato 26 novembre 2011

AMY WINEHOUSE vs. THE CITY CHAMPS: LOVE IS A LOSING GAME, 2007



Barcellona contro Chievo oppure All Blacks contro Italia. Scegliete il paragone e il tipo di gioco che più vi aggrada per definire i termini del match tra Amy Winehouse e il trio proveniente da Memphis dei The City Champs. Non c'è partita, però, come spesso accade in certi incontri, la squadra sfavorita riesce a volte ad impegnare, seppure per poco, quella più brava ed infarcita di campioni. In questo caso, il trio americano formato da Joe Restivo alle chitarre, Al Gamble alle tastiere e George Supplick alla batteria, nel cimentarsi con la cover di "Love is a losing game" la butta nel jazz venato di soul, Booker T. come nume tutelare, aggiungendovi dosi massicce di groove per cercare di impensierire almeno un po' la performance vocale della Amy. E cosa altro potevano fare? La cover è inserita nel loro primo album "The Safecracker", uscito nel 2009, bel dischetto di sonorità vintage, ricorda a tratti quei vecchi vinili che si producevano in quel di New Orleans, roba tipo Bar-Keys e The Meters per intendersi con una spruzzata di Henry Mancini, il classico gruppo che deve essere ascoltato live per apprezzarne tutte le sfumature.
Di Amy invece, cosa altro dire? Non aggiungerò nient'altro che non sia già stato detto, vi chiedo soltanto di gustarvi l'interpretazione del video: per chi pensa che il soul sia una musica senz'anima e che non ha niente da dire questa può essere una risposta, nel senso che aldilà di tutti i virtuosismi possibili, l'anima che questa musica farà vibrare, sarà solo e soltanto la vostra.



venerdì 25 novembre 2011

DONNY HATHAWAY E ROBERTA FLACK: THE CLOSER I GET TO YOU, 1979

photo via Tarkus

Questa potrebbe essere la storia di un uomo che con la sua musica e la sua voce ha messo una parola definitiva su come intendere la soul music. Non voglio però fare qui una biografia dell'artista, ma parlerò soltanto delle emozioni che mi da tutte le volte che incrocio la sua opera. Donny Hathaway in soli tre dischi solisti ed uno realizzato insieme a Roberta Flack, ha lasciato un'impronta indelebile nel mondo della musica, non soltanto nel soul ed affini. Si può dire che ha completato quello che Stevie Wonder prima e Marvin Gaye poi avevano iniziato, ovvero una musica che partendo da storie perlopiù sentimentali sono via via diventate canzoni che hanno descritto senza mediazioni di sorta la condizione sociale dei neri americani e la successiva presa di coscienza nella lotta per i diritti civili nell'America a cavallo delle presidenze Johnson e Nixon. Hathaway era tutto questo ma anche di più. Ascoltate come un brano strumentale qual'è "The Ghetto" con il suo andamento funky e intriso degli umori di strada di tanti quartieri "bassi" delle metropoli americane, sia diventato un inno che vale più di cento discorsi. Ascoltate l'uso innovativo che fece del piano fender rhodes, ascoltate quelle canzoni che sono ancora oggi una primaria fonte d'ispirazione per gli artisti che operano in ambito soul, come i tributi che cantanti come Amy Winehouse, Laureen Hill e Alicia Keys gli hanno dedicato. Ascoltate i duetti insieme alla sua amica Roberta Flack, vi ripagheranno di tanti obbrobri musicali fatti in nome di un sentimentalismo che sfocia il più delle volte in ruffianeria e manierismo.
Purtroppo, come troppo spesso accade nella vita di talentuosi musicisti, Donny è stato sconfitto dai fantasmi che hanno accompagnato la sua breve esistenza. Fantasmi in forma di depressione, schizofrenia paranoica, allucinazioni nelle quali sosteneva che i bianchi rubavano la sua musica con dei macchinari collegati al suo cervello.
Donny Hathaway ci ha lasciato un giorno di Gennaio del 1979, a trentatré anni, precipitando dal quindicesimo piano dell'Essex House, albergo situato in quel di Manhattan. C'è chi parlò di suicidio, chi disse di un disgraziato incidente o forse fu un'ultimo disperato tentativo per essere finalmente libero.
Remake del post già apparso su Call of the West del 29-10-2010.

mercoledì 23 novembre 2011

ERIC ROBERSON: PICTURE PERFECT, 2011


Eric Roberson, Erro per gli amici, è probabilmente il miglior soul singer attualmente in circolazione, snobbato e semisconosciuto dalla maggior parte degli appassionati di musica, ma tenuto nella massima considerazione e rispetto da parte dei suoi colleghi. Si può dire che Erro rappresenta l'anima indie del movimento soul ed r'n'b, se mai ne esiste uno. Quel che è certo è che il nostro, per poter ottenere la massima libertà artistica, ha sempre schivato le major preferendo incidere per etichette indipendenti al punto da crearsene una propria, la Blue Erro Soul, nel 2003. La parabola artistica di Erro è iniziata nel 2001 con l'album "The Esoteric Movement", fino ad arrivare ai giorni nostri con l'album uscito il mese scorso, "Mister Nice Guy", il sesto della serie.
A differenza di tanti celebrati campioncini del cosidetto indie rock, Roberson ha dimostrato cosa vuol dire essere "indipendenti" da qualsiasi pressione delle etichette discografiche, pubblicando i suoi dischi quando ne aveva voglia; ha venduto i suoi primi quattro Cd principalmente durante i suoi concerti o in piccoli punti vendita, riuscendo a piazzarne 100mila copie e ricevendo sempre degli ottimi apprezzamenti da parte della critica. Il suo modo di lavorare è un modello per altri artisti indipendenti, ed è la dimostrazione che con le idee giuste e il non appecoronamento verso modelli considerati "vincenti", anche nella soul music odierna si può ambire a costruire qualcosa di interessante e degno di nota.
Il suo ultimo lavoro è veramente il miglior disco di "neo soul-r'n'b" contemporaneo uscito quest'anno, morbido senza cadere nella melensaggine, 15 brani che non annoiano mai, un caleidoscopio di stili che partono dalle sonorità classiche senza esserne una copia carbone, per arrivare a suggestioni hip-hop senza esagerare. Soltanto in un brano, l'ultimo, "All for me", c'è la sensazione di qualcosa di fuori posto rispetto ai brani precedenti. E' una classica ballad solo piano, orchestra e voce dall'andamento solenne, ma, e qui sta l'intuizione del nostro, dove una Whitney Houston od un Lionel Richie avrebbero fatto entrare il classico colpo di grancassa ed alzato il pathos nel momento topico del brano, qui assistiamo ad un naturale svolgersi della canzone, rimanendo negli argini del buon gusto, senza gli strabordamenti in territori di tronfismo kitsch, tipici di questo tipo di ballad.
Album consigliatissimo che, qui lo dico, riporta alla mente i momenti migliori del grande D'Angelo (non Nino e neppure Gianfranco, ma i fratelli soul sapranno di chi parlo).

lunedì 21 novembre 2011

MELVIN SPARKS: DISCO BOOTY, 1975



Melvin Sparks è stato un testimonial di prodotti per barbeque. E forse in America, per chi non si interessava alla musica, è stato più conosciuto per questo. Ed è un peccato, perché Melvin, chitarrista partito dal jazz per poi approdare ad una fusione tra soul e funk, è stato uno dei pionieri del futuro acid-jazz, e ne è diventato un punto di riferimento. Non ha inciso molti dischi, sette, dal 1970 al 2006, ma ha partecipato come turnista in centinaia di album dei maggiori musicisti del genere, tipo Lou Donaldson e Idris Muhammad, per dirne due.
Musicista eclettico, come lo si ascolta nel brano di oggi, dove si diverte con i ritmi della disco, innestata però da una dose massiccia di funk. Il pezzo non è presente in nessuno dei suoi album, è un rare groove che arriva da una compilation della Ace Music uscita nel 2001 e compilata dal dj inglese Dean Rudland. E non è un caso che ancora una volta le orecchie più attente per questi suoni arrivino dall'Inghilterra, dove alla musica black è data pari dignità che al rock, a differenza del nostro paese, dove se confessi di essere appassionato di soul, bene che ti vada vieni commiserato.

sabato 19 novembre 2011

THE COMMODORES: X RATED MOVIE, 1978


Davanti a questo gruppo e a questo disco, mi sento come i turisti che, passando per Firenze, si trovano di fronte, tutte insieme, la cattedrale di Santa Maria del Fiore, il campanile di Giotto ed il Battistero. Oppure, mentre stanno ammirando le opere site nella galleria degli Uffizi. I sintomi: capogiro, tachicardia, vertigini, confusione e in casi estremi, allucinazioni. Si, è la famigerata sindrome di Stendhal. E' una malattia rara, ma tra i malanni dell'appassionato di musica c'è pure questa. I Commodores sono conosciuti principalmente per essere stati il gruppo di Lionel Richie (come se gli altri fossero dei miseri scalzabbubole) e questo album, "Natural High", e la canzone ivi contenuta "Three Times A Lady", li fece assurgere al ruolo principe di band per pomicioni. Che le ballad siano state il pezzo forte del gruppo non ci piove, ma i nostri Commodori se la cavavano molto bene anche con il funk. Vi ricordate "Brickhouse" dall'album precedente? Anche in "Natural High" c'è un pezzo che fa vibrare le corde giuste, quelle del groove ovviamente, e il titolo è già tutto un programma, "X Rated Movie". Come dire, dal funk sofisticato a quello hardcore! ^____^
Comunque diciamo che questo è l'ultimo album dove l'r'n'b ed il funk la fanno da padrone, poi la parabola dei Commodores e quella di Lionel Richie veleggerà verso i lidi del pop, benché di classe, ma sarà così irremediabilmente annacquato il loro sound, facendo storcere più di un naso ai puristi del soul'n'funk.

giovedì 17 novembre 2011

THE FATBACK BAND: LET THE DRUMS SPEAK, 1975


C'è poco da fare; il groove o ce l'hai dalla nascita o non ce l'hai. E' inutile provare ad afferrarlo quando sei già a spasso per il mondo, inutile tentare di imitarlo; se non ti è apparso quando hai visto per la prima volta la luce, quello che puoi avere in dono, è una parvenza di groove. Prendi ad esempio la Fatback Band. Ah beh, magari mi direte che facevano un funkettino leggero leggero, imbastardito con la disco, ma scommetto che tutte le volte che sentite partire un loro pezzo, vi scatterà dentro la molla del groove, sempre che lo possediate, naturalmente. A loro di certo non mancava, e strabordava dai solchi dei loro vinili: il miracolo del groove poi avveniva quando vedevi la folla riempire la pista da ballo. Un miracolo di conversione, si, anche per chi non ne aveva le stimmate, salvo poi ritornare nel grigiore quando il brano sfumava e partiva, che so', un cazzo di disco delle Baccarà o peggio, quando qualche rocker di razza provava a cimentarsi con il funk (ueh, il correttore ortografico al posto di rocker mi ha scritto cocker, in questo caso devo dire a ragione. Di chi parlo? Avete mai sentito "Funky New Year" degli Eagles? Ovvero, come sputtanarsi una gloriosa carriera in quattro minuti).
Ritornando alla Fatback Band, "Let The Drums Speak" è tratto dall'album del 1975 "Yum Yum", disco di street funk dove i ragazzi iniziavano a lasciarsi alle spalle le ruvidezze dei primi anni, mantenendo però l'impostazione live delle canzoni e, cosa importante, non a discapito della qualità, sempre molto alta in questo vinile.
Let's Groove !

mercoledì 16 novembre 2011

HAROLD MELVIN AND THE BLUE NOTES: BAD LUCK, 1974


Questa era la musica soul che si suonava nelle feste scolastiche alla metà degli anni '70, e che veniva ballata nelle discoteche. Arrivava da Philadelphia, il suono era riconoscibile all'istante e coinvolgente come pochi altri generi lo sono stati, talmente caratteristico da creare un sottogenere nell'ambito della soul music che prenderà il nome di Philly Sound. L'etichetta discografica che ebbe più hits nelle classifiche fu la Philadelphia International dei produttori Gamble e Huff, sia lode a loro, ed il gruppo più famoso e rappresentativo furono i Blue Notes di Harold Melvin. Come partivano le prime note di un qualsiasi loro disco, li riconoscevi all'istante, e questo grazie all'inconfondibile voce del solista, il grande Teddy Pendergrass, e ai complessi intrecci vocali degli altri. E pensare che il buon Teddy entrò nella band in qualità di batterista, salvo poi prendersi quel ruolo di primo piano che lo rese famoso, tanto da lasciare la band all'apice del successo - i componenti della band non accettarono il cambio di nome da lui proposto, ovvero "Teddy Pendergrass and The Blue Notes"- per intraprendere la carriera solista.
Ritornando alla line-up original, "Bad Luck" era fra tutti il brano che preferivo, ascoltare l'attacco iniziale please, e se non bastasse, il ritornello veniva buono da urlare mentre lo ballavi in qualche scalcinata discoteca di periferia. E questo fu il bello del Philly Sound e delle canzoni dei Blue Notes, non solo musica da ballo, ma anche eccezionale aggregatore di una determinata classe sociale, il proletariato urbano, e di una generazione, la mia.

martedì 15 novembre 2011

EDDIE ROBERTS AND THE FIRE EATERS: BURN, 2011


Ecco scovata una band che, per quanto mi riguarda, ha licenziato uno dei migliori dischi soul funk dell'anno. I Fire Eaters sono il nuovo progetto del chitarrista inglese Eddie Roberts, band nata grazie ad un tour spagnolo della band di Roberts, The New Mastersounds, dove ha unito le forze con la sezione ritmica dei Sweet Vandals, gruppo spagnolo dedito, come il gruppo di cui sopra, ad un torrido soul-funk. La miscela ha dato vita ad un disco incendiario, non a caso chiamato "Burn", un'ora circa di brani originali e un paio di cover dallo stesso comun denominatore: funk, acid jazz e soul. Niente di nuovo, il gruppo si muove nella tradizione delle band che hanno caratterizzato il genere, un nome su tutti il James Taylor Quartet, ma ricorda anche artisti quali Jimmy Smith e Donald Byrd. Quel che è certo è che dischi come questi sono dei toccasana per le orecchie, una dimostrazione che aldilà di qualsiasi menata intellettualoide, aldilà di ogni presunta "novità", basta la passione e la "fede" nella musica dell'anima per realizzare delle opere che magari non passeranno alla storia, ma che nella loro energia e nella loro spontaneità, meriterebbero miglior fortuna che non l'attenzione dei soliti carbonari.

lunedì 14 novembre 2011

DARONDO: GET UP OFF YOUR BUTT, 1973


Che si potrebbe tradurre anche come "Alza il culo", e in giorni come questi la trovo una frase molto pertinente a proposito del satrapo di Arcore. Ma il nostro Darondo non poteva certo sapere quarant'anni fa dell'avvento di un piccolo uomo nel nostro vivere quotidiano e chissà a chi era rivolto l'invito. Di sicuro una volta che il pezzo è partito il culo viene voglia di alzarlo si, ma per mettersi a ballare. Funk scarno, suonato live senza sovraincisioni, potente come un pugno allo stomaco, una massiccia linea di basso a dare la linea, la batteria all'unisono, una armonica in sottofondo a ricamare e la voce del nostro che esorta a passare all'azione.
Bella scoperta questo Darondo, l'ennesimo miracolo della musica, a differenza di quello promesso diciassette anni fa dal solito omino.

venerdì 11 novembre 2011

ANITA BAKER: YOU BRING ME JOY, 1986

Ballatona strappacore, scritta da quel talento misconosciuto di David Lasley, e la voce...quella voce ! Nel 1986, Anita Baker arrivò d'imperio nello stardom musicale, imponendosi come nuova diva di un genere già orfano di una presenza che unisse lo charme di Diana Ross, con la potenza di Aretha Franklin.
Ritornava il soul, grazie ad un disco di canzoni diventate degli instant classic, e forse a causa di queste, rimarrà come un'opera unica e mai più ripetuta da Anita Baker.
E' il destino delle opere prime che hanno al loro interno tante canzoni da poterne fare dei singoli potenziali, dischi già maturi che bastano per gli anni a venire.
Un team di musicisti fuoriclasse, arrangiamenti che tenevano conto della lezione del passato ed un tris di autori che firmeranno i brani migliori dell'album: Rod Temperton con "Mistery", il già citato David Lasley e Ken Hirsch con "No one in the world".
Per concludere, un disco senza tempo, che è rimasto come un corpo a se stante nel panorama della soul music degli anni '80.
Soul di classe ?

giovedì 10 novembre 2011

BILLY COBHAM AND GEORGE DUKE BAND: STRATUS, 1976


La chiamavano fusion, anche in senso dispregiativo; per me era una miscela esplosiva ed irresistibile di jazz, funk, soul e rock. Billy Cobham e George Duke erano insieme ai Return to Forever di Chick Corea, alla Mahavishnu Orchestra di John Mc Laughlin e ai nostrani Perigeo la mia personale oasi dagli ascolti hard rock che caratterizzarono la mia adolescenza. Il brano di oggi, "Stratus", è tratto dall'album "Spectrum" uscito nel '73 per mano di Billy Cobham ed il video che potrete gustarvi arriva da quel festival da urlo che fu il Jazz Fest di Montreaux, sempre agognato e mai visto dal vivo. Ascoltare poi questo pezzo, uno standard per il genere, suonato insieme alla band di George Duke, ti fa ripiombare indietro in quelle atmosfere da blaxploitation. Gustatevi pure il grande John Scofield alla chitarra e Alphonso Johnson al basso. Ora, dopo aver ascoltato questo pezzo, non capisco e non capirò mai come questo genere abbia avuto più infamie che lodi, anche se ho una mia piccola convinzione: l'invidia verso certe capacità tecniche da parte della critica musicale, adusa ad esaltare l'ennesimo hype che non a riconoscere l'arte quando questa si manifesta.

mercoledì 9 novembre 2011

THE JACKSON 5: NEVER CAN SAY GOODBYE, 1971-SMOKIN' JOE TRIBUTE


Questa è la versione originale della canzone portata al successo in versione disco da Gloria Gaynor e coverizzata anche da Isaac Hayes. Il motivo del post però è un'altro. Questo brano fu pubblicato nel Marzo del 1971, mese che vide svolgersi il giorno otto, quello che passerà alla storia come il "Match del secolo" di pugilato, tra Cassius Clay e "Smokin" Joe Frazier.
Ed è il mio personale omaggio e ricordo del pugile che sconfisse Mohamed Alì, scomparso ieri all'eta di 67 anni per un tumore al fegato. Un'altro che ci lascia, un'altro pezzo della mia infanzia che sparisce.
So long, Joe.

martedì 8 novembre 2011

EVERYTHING BUT THE GIRL: LETTING LOVE GO, 1990


Chiunque si affidi alle cure del produttore Tommy Li Puma sa quello che gli aspetta. Dischi iper prodotti, sonorità raffinate spesso al limite dello stucchevole, impeccabili costruzioni sonore dove niente è lasciato al caso. Tutto deve essere al proprio posto, e ognuno deve spremere il meglio da se stesso, dove per ognuno si intendono i migliori turnisti in circolazione che bazzicano gli studi discografici. Quando il produttore americano ebbe modo di ascoltare gli EBTG si trovò come essere folgorato sulla via di Damasco nel sentire la calda voce di Tracey Thorn e la grazia musicale di Ben Watt, tanto da essere convinto a chieder loro di volare in America per incidere un disco alla maniera degli Steely Dan e degli sconosciuti cantori del pop soul californiano. La prima volta il duo inglese oppose un netto rifiuto alla proposta, salvo ritornarci sopra un anno dopo, forse capendo l'intuizione di Li Puma. Nacque più o meno così "The Language of Life", un disco del tutto straniante dalla produzione fin lì realizzata dagli EBTG, ma talmente belle nella sua semplicità di fondo, nonostante la pulizia e l'iper-produzione di cui sopra, tanto da celare la complessità di quelle trame compositive che i brani contengono.
Forse più pop che soul, ma basta la voce di Tracey Thorn per far pendere la bilancia dalla parte della musica dell'anima.
A proposito, questi alcuni dei musicisti che parteciparono al progetto: Michael Brecker, Stan Getz, John Patitucci, Joe Sample, Vinnie Colaiuta, Omar Hakim, Michael Landau. Vi bastano?

lunedì 7 novembre 2011

THE WHO vs. MARTHA AND THE VANDELLAS: HEAT WAVE, 1963


Prima sfida nel blog tra due formazioni angloamericane: da una parte gli inglesi Who, dall'altra le americane Martha and the Vandellas. La canzone è "Heat Wave", cioè Holland-Dozier-Holland, cioè il non plus ultra del suono Motown. Il brano è del 1963, qui vediamo l'originale eseguito da Martha in "Ready Steady Go", uno tra i più celebrati tv show della tv inglese, ed era, se non erro, il 1964. Del 1965 invece è la cover dei Who, tratta da un film documentario francese, intitolato non a caso "Les Mods".
La canzone è essa stessa un documentario: cattura tutto l'ottimismo e lo spirito del tempo, fu venduta a camionate, e sta alla pari, se non più in alto, di tanti celebrati inni rock.
Ma ora, fuoco alle micce: quale delle due performance preferite?



domenica 6 novembre 2011

NICK PRIDE AND THE PIMPTONES: WAITING SO LONG, 2011


Come prima canzone di artisti contemporanei che presenterò settimanalmente nel blog, la mia scelta è andata sui Nick Pride and The Pimptones, gruppo di Newcastle dedito ad un soul-jazz-funk, adatto per scatenarsi nei dancefloor. Il gruppo è nato nel 2007, ed è un progetto del chitarrista e produttore Nick Pride, hanno realizzato due album, uno nel 2009, "It's The Pimptones!!!!", e l'altro, "Midnight Feast Of Jazz", è uscito da poco per la Record Kicks di Milano. Come vi dicevo è il classico gruppo che andrebbe gustato dal vivo, magari in un party, ma la carica che i ragazzi ci mettono nel suonare si può apprezzare anche su disco, e senz'altro mantengono quello che promettono, insomma, è un gruppo che ti fa divertire e, facendo un paragone alimentare, è o.g.m. free e non contiene grassi.
Il brano che vi posto oggi "Waiting so long" , vede la partecipazione alla voce di Jess Roberts, una caliente cantante londinese che gli amici di Roma hanno avuto modo di ascoltare il 28 di Ottobre scorso al Circolo degli Artisti con la sua band.
Tutti in pista !

sabato 5 novembre 2011

DARONDO: DIDN'T I, 1973


photo by Amanda Lopez

Chi è Darondo? Un Suv coreano? Il nome- "Da Rondo" - di una trattoria? Nessuno dei due, anche se la trattoria esiste veramente ed i suv coreani per ora non contemplano quel nome. Darondo è il nick di William Pulliam, uno che i miti del rock se li mangia a colazione. Il suo nome è avvolto nel mistero e nella leggenda, all'inizio degli anni '70 ha inciso tre singoli per tre case discografiche diverse, poi si narra che una sera, tornando a casa con la sua Rolls Royce dopo aver aperto un concerto di James Brown, abbia deciso di lasciare il mondo della musica. Si dice anche che la sua occupazione principale fosse quella del "pimp", cioè del magnaccia, anche se lui ha smentito. Lo hanno visto fare pure il fisioterapista non ortodosso (chissà che faceva ai pazienti) e il collezionatore di opere d'arte. La sua musica è uscita dagli scaffali dei collezionisti di dischi grazie a quel minatore indefesso di Gilles Peterson che ne ha trasmesso i brani su Bbc radio 1, poi di seguito i più scafati, e ci metto tutti voi lettori del blog, avranno riconosciuto due suoi pezzi inseriti in due episodi di due serie tv americane "Breaking Bad" e "Life on Mars", e chissà se vi avrà incuriosito talmente tanto da farvi acquistare una raccolta di canzoni del nostro uscita recentemente per la Ace Records, dal titolo "Listen to my song - The Music City Session". Nastri di una lunga sessione di registrazione, per un album che doveva uscire nel 1974 e che gli appassionati credevano perduti, sono ritornati a noi in tutto il loro splendore, sonorità funk e soul, dove sono ben presenti i riferimenti dei maestri primevi, cioè Curtis Mayfield, Al Green e Ronald Isley. Suoni grezzi, suonati live senza altri orpelli, che fanno finalmente giustizia della fama del nostro, mettendone in risalto la sua anima più vera.
Indispensabile.

venerdì 4 novembre 2011

AZAR LAWRENCE: THEME FOR A NEW DAY, 1976


C'è qualcuno che si ricorda di queste sonorità? A metà degli anni '70 erano un'alternativa alle chitarre rumorose e alle sinfonie progressive, ma forse grazie a queste ultime, l'interesse per quelle musiche erano una naturale evoluzione di quegli ascolti. Chiamatelo jazz rock, soul funk, space soul, la sostanza era la stessa e gente come i Return to Forever, John Mc Laughlin, Billy Cobham e i nostrani Perigeo erano il pane quotidiano per molti di noi. Il musicista di oggi, pur muovendosi in quest'ambito, non era molto conosciuto all'epoca pur avendo registrato un discreto album, "People Moving" da cui è tratto il brano di oggi. Sassofonista, Azar Lawrence ha lavorato insieme alla crema dei jazzisti di allora, Mc Coy Tyner, Miles Davis e Freddy Hubbard, e scusate se è poco. Come solista ha realizzato cinque dischi, tre vanno dal 1974 al 76, gli altri due sono del 2009 e del 2010.
"Theme for a new day" è un perfetto incastro di jazz in una struttura soul-funk, anche i restanti brani dell'album non sono da meno, pur essendo di una scrittura più immediata rispetto a questo. La sua grana sonora ricorda John Coltrane, ma non voglio esser sacrilego e qui mi fermo.
Da riscoprire e gustare.

giovedì 3 novembre 2011

MAXWELL: ASCENSION (DON'T EVER WONDER), 1996


Se per molti quest'anno sarà ricordato come il ventennale dall'uscita di Nevermind dei Nirvana, il vostro dottore vuole celebrare un altro anniversario, magari non clamoroso come quello sopra citato, ma altrettanto importante per un certo genere musicale e non solo. Si, sono già passati quindici anni dall'uscita del primo album di Maxwell, "Urban Hang Suite", disco che possiamo considerare come quello della rinascita del soul, quel soul fatto grande dai padri nobili del genere, Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Stevie Wonder e Prince. Se poi ci mettiamo il carico di assonanze vocali con Smokey Robinson, si può senz'altro chiudere il cerchio.
L'album, un concept basato sulle esperienze personale di Maxwell su e intorno l'amore, è uno di quei lavori che fanno da spartiacque per un genere, si può classificare il nuovo soul come prima e dopo questo disco, mi vengono in mente anche i coetanei lavori di Erika Badu e D'Angelo, altrettanto seminali come questo. Le sonorità del disco rimandano appunto a quelle dei classici artisti soul, sonorità calde, vellutate, con una linea di basso funk, chitarre wah wah, fiati, e tastiere fender rhodes, ci trovi dentro il jazz, quello più torrido, ballate da togliere il fiato e tanto erotismo. Il nostro, dimostrando di vederci lungo, ha voluto con se, per realizzare il disco, autori del calibro di Leon Ware e Itaal Shure, Stuart Matthewman e Hod David. Insomma, per chi non si accontenta delle direttive della critica rock, su cosa meriti di essere ricordato e su cosa sia un capolavoro, questo album ha tutto il diritto di essere posto nell'olimpo della musica di tutti i tempi e non solo nel suo genere.

mercoledì 2 novembre 2011

TAMMI TERREL: ALL I DO IS THINK ABOUT YOU, 1966


Questa canzone era già apparsa nel mio vecchio blog, ma una ripassatina non fa mai male. Il brano, scritto da Stevie Wonder, è una oscura gemma del repertorio di Tammi Terrell, sfortunata cantante dell'epoca d'oro della Motown, scomparsa all'età di 24 anni per un tumore al cervello. Forse la conoscete per aver cantato in coppia con Marvin Gaye, -almeno due titoli,"Ain't no mountain high enough" e "You're all i need to get by" - credo che li avrete ascoltati tutti, e sicuramente i suoi maggiori riconoscimenti li ha avuti insieme a lui. Il brano di oggi è quello che si può definire un "future classic", cioè una canzone che definisce uno stile ed un'epoca ma che ha avuto più fortuna da postuma che non al momento. Grazie anche all'opera di Paul Weller che l'ha scelta per una compilation uscita lo scorso anno, che riuniva 28 rare canzoni r'n'b e soul di quegli anni, oggi possiamo gustarci questa chicca che altrimenti, me compreso, sarebbe rimasta sconosciuta ai più.
Diciamo che con questa canzone possiamo iniziare ad approcciare nel modo migliore il cofanetto "Quadrophenia-The Director's cut" in uscita il 14 di Novembre. Sarà un modo di ripassare quelle sonorità che giravano intorno agli anni in cui è ambientato il capolavoro degli Who, per capire quanta importanza hanno avuto per l'elaborazione dei suoni del gruppo inglese.
Mai pubblicato come singolo dalla Motown, stranamente.
Emozionante e commovente!

martedì 1 novembre 2011

DOOBIE BROTHERS: YOU'RE MADE THAT WAY, 1977


Come vogliamo appellare questa canzone ? Blue Eyed Soul, Pop-Soul, West Coast ? Quel che è certo è che arriva da uno dei migliori dischi dei '70, quel "Livin' on the fault line" dei Doobie Brothers, uscito nel 1977, qui con uno strepitoso Michael Mc Donald che si era unito alla band l'anno precedente, proveniente dagli Steely Dan, dove contribuì alla realizzazione del nuovo corso dei Doobies con "Takin' it to the streets".
"Livin' on the fault line" rappresenta però il punto più alto della carriera del gruppo americano ed è un caposaldo di quella particolare miscela di pop, soul, funk e sonorità west coast, suonate da dio e talmente sottostimate che a riascoltarle adesso gridano vendetta.
Riguardo a ciò, chi mi segue, sa come la penso su buona parte della critica musicale, incapace di riconoscere la bellezza quando gli si presenta sotto il naso e buona soltanto a rincorrere l'ultima moda del momento. Pensatela come volete, ma queste canzoni migliorano con il passare degli anni e lasciano una profonda nostalgia per quei grandi artisti che le realizzarono.
Michael Mc Donald poi, aggiungeva anche la sua voce black, oltre che alla scrittura, e se i Doobies incisero dei dischi da tramandare ai posteri fino a "One Step Closer" del 1980, passando per "Minute by Minute" del 1978, il merito è da ascrivere totalmente al suo genio.
E pensare che oggi c'è chi si sollazza con i Coldplay...