giovedì 13 febbraio 2025

Scali Fuori Rotta: Certe Volte… - Pino Donaggio (1976, produttori Associati)

Il mese di febbraio, qui in Italia, è inevitabilmente legato al Festival di Sanremo. Un’associazione che mi offre lo spunto per parlare di un artista che ha calcato più volte il palco del Festival, e che in un’edizione – quella del 1965 – non si limitò a presentare la canzone più bella di quella edizione, ma regalò al mondo un successo planetario: Io che non vivo (senza te), resa immortale da Dusty Springfield e persino reinterpretata da Elvis Presley. Sì, il protagonista di questa storia è Pino Donaggio, raffinato autore di musica leggera prima, e poi compositore per il cinema, in particolare delle colonne sonore per i film di Brian De Palma.  

Nel 1976, Donaggio pubblicò un album che purtroppo rimase nell’ombra: Certe Volte. Un disco cantautorale atipico, in cui tre brani vedono Donaggio autore solo delle musiche. Un lavoro che avrebbe meritato un posto d’onore nella scena dell’epoca, ma forse quelle melodie troppo ariose furono giudicate “ampollose”, o forse pesò il suo essere un habitué di Sanremo, tale da essere snobbato dai puristi del genere.  

Già alla sua ultima partecipazione al Festival nel 1972, con Ci Sono Giorni, Donaggio aveva mostrato insofferenza verso le canzonette della kermesse, accennando a una svolta. Una rivoluzione compiuta proprio con Certe Volte. I brani dell’album non hanno nulla a che fare con i cliché sanremesi: catturano per un’emotività viscerale e inattesa. Spiccano la poetica Se Fosse Vostro Padre, che racconta solitudine e amori della terza età; Naturale, scritta da un giovanissimo Massimo Bubola; Certe Volte A Venezia, drammatico affresco di un amore impossibile tra calli malinconiche, narrato come un film immaginario, anche grazie al bellissimo accompagnamento musicale. E poi c’è Mario, capolavoro assoluto: Donaggio firma la musica, Danilo Franchi il testo, in un racconto di disillusioni e solitudini nella società che divora i deboli. Un brano che colpì Enzo Jannacci al punto da reinterpretarlo nel 1979 nell’album Foto Ricordo, elevandolo a classico della musica italiana.  

Un plauso finale ai musicisti che resero magico l’album: Natale Massara, Gianni Zilioli, Gigi Cappellotto, Bruno Crovetto, Andy Surdi, Tullio De Piscopo, Massimo Verardi, Sergio Farina, Claudio Bazzarri, Massimo Bubola e Oscar Rocchi.  

Se tra una diretta e l’altra di Sanremo cercate una pausa autentica, regalatevi l’ascolto di Certe Volte. Non è un consiglio, è un invito a scoprire un tesoro nascosto.   

mercoledì 12 febbraio 2025

Live in Japan 1974 - War (2025, Far Out Productions/Rhino)


Gli album live registrati in Giappone sembrano possedere un’aura particolare, non c’è dubbio: state certi che, ascoltandoli, non rimarrete delusi. È stato così per il celebre Made in Japan dei Deep Purple, così come per At Budokan dei Cheap Trick e, analogamente, per Bob Dylan At Budokan. Quando ho appreso che la Rhino avrebbe rilasciato un Live in Japan 1974 dei War, sono rimasto sereno, potendo già immaginare che si sarebbe trattato di un altro album live d’eccellenza, come in effetti si è rivelato essere.

Registrato durante la tournée giapponese del 1974, quando i War erano al culmine del loro successo, reduci dall’uscita dell’album The World is a Ghetto, questo disco rappresenta una potente testimonianza della band, con tutti e sette i membri della formazione originale, e raccoglie le esibizioni dei concerti tenutisi a Tokyo, Osaka, Kobe e Shizuoka.

Naturalmente, l’album include tutti i loro successi del periodo, da The Cisko Kid ad All Day Music fino a The World is a Ghetto. Il sound è coeso e imperioso: si percepisce chiaramente che la band era nel suo periodo migliore, con Lee Oskar all’armonica e Papa Dee Allen alle percussioni a guidare jam session ipnotiche, e l’album ne è una chiara testimonianza. Durante il tour, i War hanno potuto constatare di persona quanto la loro musica fosse apprezzata in Oriente, di fronte a un pubblico sempre entusiasta e mai sazio di bis e standing ovation.

Il disco contiene performance mai ascoltate prima; le canzoni abbracciano non solo il funk, ma anche soul e blues. Include versioni estese e improvvisazioni inedite, come il funk trascinante di Southern Part of Texas o il blues di Slippin’ Into Darkness. Ogni brano è una lezione di musica senza confini, un tributo ad una band che ha giocato un ruolo fondamentale nel panorama della musica moderna, ridefinendo i generi  amalgamando culture e suoni. E che meriterebbe di essere ricordata più spesso. 

martedì 11 febbraio 2025

Tokyo Groove: Viaggio Nel City Pop - Takako Mamiya


Love Trip - Takako Mamiya (1982, Kitty Records)

Così come lo yacht rock ha avuto il suo artista venuto dal nulla, Dane Donohue, autore di un solo album considerato tra i migliori del genere, per poi sparire e ritornare sulle scene dopo ben 45 anni, lo stesso si può dire di Takako Mamiya, ribattezzata a suo tempo “la donna misteriosa del City Pop”. Mamiya incise un solo album, Love Trip (1982), uno dei capolavori del genere, e scomparve completamente dalla scena. A differenza di Donohue, però, di lei non si è più saputo nulla. Quel che sappiamo della sua carriera è frammentario. 

Mamiya iniziò come corista per la East World, una piccola etichetta specializzata in folk-rock, e in quel periodo partecipò ai cori di due singoli della pop idol Sabine Marianne Kaneko. Successivamente entrò a far parte di un trio jazz chiamato PAO, con cui incise un singolo; tuttavia, abbandonò il gruppo prima che pubblicasse il suo primo album. Dopo questa breve esperienza, Takako si esibì nei piccoli club di Shinjuku, dove attirò l’attenzione di un turnista legato alla neonata etichetta indipendente Kitty Records, di proprietà del celebre chitarrista Masanori Takanaka. Il turnista, colpito dalla sua voce, la invitò a presentarsi alla sede dell’etichetta per proporle di registrare un disco.

Nonostante fosse una sconosciuta, Mamiya riuscì a riunire per Love Trip alcuni dei migliori musicisti e compositori del panorama giapponese. Alla produzione partecipò il sassofonista Genji Sawai, mentre tra i turnisti spiccavano nomi come Yoshihiro Naruse, bassista della miglior band jazz/rock del Giappone, i Casiopea, Hiroshi Uehara, batterista già collaboratore di Tatsuro Yamashita e Hiroshi Sato, e Katsu Hoshi, chitarrista della storica band The Mops. Anche i compositori impiegati erano tra i migliori: tra gli altri Yoshiko Miura e il grande Akira Inoue contribuirono alla creazione di un album che avrebbe definito un’epoca.

Eppure, nonostante la qualità delle sue tracce e la cura maniacale nella produzione, il disco non ottenne il successo sperato. Kitty Records, essendo una piccola etichetta, non aveva i mezzi per promuoverlo adeguatamente in un mercato dominato dalle major. Il risultato fu che Love Trip ricevette poca programmazione radiofonica e non riuscì nemmeno a entrare nelle classifiche Oricon. Nonostante tutto, il valore dell’album è innegabile: è, senza mezzi termini, un capolavoro.


Il primo aspetto che colpisce è l’approccio vocale di Mamiya. Nonostante i testi siano in giapponese, il suo stile evita gli acuti caratteristici di molte cantanti locali, avvicinandosi alla sensibilità vocale degli artisti occidentali contemporanei. Questo tratto, unito alla qualità delle composizioni, spiega perché Love Trip sia così apprezzato anche fuori dal Giappone. Musicalmente, il disco si colloca nell’ambito del westcoast pop nella sua versione più rilassata ed elegante, con atmosfere notturne che richiamano le migliori produzioni di David Foster per artisti come Dionne Warwick o Al Jarreau. È un album che predilige la sobrietà e la raffinatezza, perfetto per chiunque ami il genere e che dovrebbe avere un posto di riguardo nelle proprie collezioni.


Delle dieci canzoni, sfido chiunque a trovarne una che non sia memorabile. In realtà, parlare di City Pop potrebbe essere limitante, perché le composizioni guardano decisamente più verso l’Occidente. L’elemento che lega l’album al genere è rappresentato dai testi, che parlano di amori perduti, ricordi di cene galanti, corse in auto nella notte e malinconiche storie di ex amanti.


Nel corso degli anni, Love Trip ha guadagnato una crescente reputazione grazie al passaparola e al rinnovato interesse per il City Pop. Ogni ristampa del disco va regolarmente esaurita, confermando lo status di cult che ha raggiunto tra gli appassionati.

Di Takako Mamiya, invece, non si è saputo più nulla. Le informazioni sulla sua vita dopo l’uscita dell’album sono scarse e frammentarie. C’è chi sostiene che abbia lavorato come vocalist per spot pubblicitari o che abbia girato uno spot in bikini per un distributore automatico di caffè. Fatto sta che il mistero sulla sua scomparsa resta fitto. Sperando che stia bene, possiamo solo ringraziarla per aver lasciato al mondo un disco che rappresenta uno dei momenti più alti di una stagione musicale irripetibile, ora finalmente riscoperta anche al di fuori del Giappone.

lunedì 10 febbraio 2025

Drop The Beat: Novità Discografiche


 Novità Discografiche della Settimana



Koine’ - Pellegrino e Zodyaco (2025, Early Sounds Recordings)

Nato nel 2018 dall’idea del produttore, DJ e producer napoletano Pellegrino, il progetto Pellegrino & Zodyaco si consolida con la pubblicazione del nuovo album Koinè. La proposta musicale di P&Z affonda le radici in una Napoli storica: quella che sul finire degli anni ’70, ereditando la lezione di gruppi pionieristici come gli Showmen e i Napoli Centrale, iniziò a dialogare con la musica black, fondendola con le sonorità mediterranee. È in questo crogiolo che prese forma il Neapolitan Power, apice commerciale e simbolo della nuova scena partenopea, la quale tuttavia custodiva un florido sottobosco di artisti celebrati in ambito locale ma spesso sconosciuti al resto del Paese. 

Nomi come Enzo Cervo, Tonica & Dominante, Tonino Balsamo e Donatella Viggiano, oggi riscoperti grazie a operazioni di ristampa, rappresentano proprio l’humus da cui trae linfa il progetto di P&Z. In Koinè dominano così sonorità dance mai banali, arricchite da suggestioni jazz-fusion, funk e tradizione mediterranea: un sound solare e al tempo stesso meditativo, capace di coniugare potenza emotiva e slancio liberatorio.  

P&Z non indulge però a una nostalgia sterile, bensì attualizza la tradizione, plasmandola sulle esigenze del presente. Se si volesse trovare un parallelo stilistico – pur nelle dovute differenze culturali – la loro dance evoca quel soul/funk elegante degli Shakatak, gruppo che seppe unire ritmiche coinvolgenti a una raffinatezza compositiva, lasciando ad altri territori sonori più scontati.  Koinè è un disco che si fa ascoltare dall’inizio alla fine senza cedimenti, e non esitiamo a definirlo la prova definitiva di come l’Italia, nel campo della dance colta, non sia seconda a nessuno.

Voto 8+/10


Back to Ma Funk - Yuts and Culture (2025, Irma Records)

Yuts and Culture sono un collettivo di origine pugliese dedito al funk e al soul, seppur con radici ben piantate nel reggae. Nati nel 2016 con il nome Reggae Roots, il gruppo si è inizialmente concentrato su questo genere, per poi rivoluzionare completamente il proprio sound con l’arrivo del cantante Vincenzo Baldassarre e l’ampliamento della formazione (da sette a undici elementi). Questo cambiamento li ha portati a esplorare il funk in modo viscerale, senza però dimenticare le origini.  

Da poco è uscito il loro nuovo album, Back To Ma Funk (pubblicato da Irma Records), un progetto che abbraccia il retro-soul con il funk come elemento cardine. Ispirati da icone come Curtis Mayfield e Al Green, ma anche da artisti contemporanei come D’Angelo e Prince, gli Yuts and Culture evitano di cadere nel semplice tributo: pur guardando al passato, infondono al sound una sensibilità moderna, bilanciando nostalgia e innovazione.  

Il disco si distingue per la potenza dei brani, l’accuratezza degli arrangiamenti e una produzione raffinata. Le radici reggae riaffiorano in due tracce, My Love Will Never Die e la conclusiva Are U In My Heart, brani di qualità che tuttavia risaltano in modo discontinuo nel contesto dell’album.  

Un lavoro pregevole, capace di proiettare gli Yuts and Culture verso un pubblico più ampio, non circoscritto ai soli appassionati di musica black. Merito di un approccio che unisce rispetto per la tradizione e slancio verso nuovi orizzonti.  

Voto 8/10


Destination Mars - Moonbrew & Paolo Apollo Negri (2025, Four Flies Srl)


L’esplorazione di Marte, al di là del suo significato scientifico, è una delle imprese più affascinanti che l’uomo sia riuscito a compiere dopo le missioni Apollo sulla Luna. Dalla prima missione Viking, passando per le sonde robotiche Curiosity, Opportunity e Perseverance – quest’ultima in collaborazione con il mini-elicottero Ingenuity –, si è dimostrata il frutto di un ingegno umano destinato a gettare le basi per future esplorazioni con equipaggio. 


È in questo contesto che prende forma il progetto di Edo “Moonbrew” Giovannelli (basso e producer) con il tastierista, organista e pianista Paolo Apollo Negri: inizialmente con album ispirati alle missioni Apollo, e ora con l’ultimo lavoro, uscito lo scorso 24 gennaio, dedicato alle spedizioni NASA sul pianeta rosso e intitolato non a caso Destination Mars. L’album, composto da sei brani strumentali, ripercorre e rende omaggio ai rover della NASA sulla superficie marziana, con uno stile cinematografico che unisce modernità e un’accattivante impronta vintage. 


Le sonorità attingono alla musica elettronica chill più raffinata, con inserti funk in alcuni passaggi. Destination Mars non è solo un tributo all’ingegno umano, ma anche un invito a ritrovare quel senno che la nostra specie sembra aver smarrito negli ultimi anni. Come ricorda il titolo del brano conclusivo, la vera frontiera dell’umanità si nasconde tra le galassie… e oltre.


Voto 7+/10



A Pleasure To Have In Class - Nia Wyn (2025, Autoprodotto)

Il primo lavoro discografico della gallese Nia Wyn si distingue per una voce inconfondibile, capace di evocare in alcuni passaggi l’eco di Ester Phillips, e si fonda su ritmi che richiamano l’energia di Motown e Stax. L’adolescenza di Nia non è stata affatto lineare: tra periodi trascorsi in centri di igiene mentale e la lotta contro l’isolamento legato ai dubbi sull’identità di genere, la giovane artista ha trovato nella musica un autentico rifugio. 

In particolare, il soul degli anni ’60 ha agito come un vero balsamo per l’anima e la mente, spronandola a trasformare in note e parole le proprie frustrazioni e battaglie quotidiane, nel tentativo di dare senso a una vita degna di essere vissuta. La sua esperienza di essere queer si scontra con un periodo storico segnato dall’ascesa di nuove intolleranze e da una diffusa ignoranza, elementi che rendono ancora più urgente il suo messaggio. 

Con A Pleasure To Have In Class Nia Wyn regala un album in cui ogni traccia racconta una parte del suo percorso, utilizzando un linguaggio musicale accessibile e ispirato alle sonorità classiche del soul. Un lavoro che, con tenerezza e determinazione, unisce lotta e passione, invitando l’ascoltatore a riflettere e a lasciarsi emozionare.

Voto 7+/10

Yoin - Asagaya Romantics (2025, P-Vine Records) Single

Avevo già parlato degli Asagaya Romantics nel post riepilogativo delle migliori uscite del City Pop giapponese del 2024. Sono una delle realtà più affascinanti della musica nipponica, che meriterebbe decisamente più hype. La band, composta da cinque giovani talenti – due ragazze e tre ragazzi – ha preso il nome da un quartiere di Tokyo celebre per i suoi caratteristici vicoli e per i piccoli bar intimi a conduzione familiare. 

Lo scorso mese di gennaio è uscito il nuovo singolo Yoin, che conferma le ottime impressioni suscitate dal loro ultimo EP. Il City Pop degli Asagaya Romantics si distingue per l’approccio alle sonorità sophisti-pop europee degli anni ’80, con echi di band come gli EBTG e rimandi ad album quali Baby The Stars Shine Bright; questo singolo non fa eccezione: un pop delicato, intimista, nostalgico, con una punta di malinconia, quasi in punta di piedi. Davvero un bel brano.

Voto 7/10

sabato 8 febbraio 2025

Doctor Wu presents: In The Mood For Soul

 


https://youtu.be/kIwqTuuiMO8

Tracklist


1.   My Love Don’t Come Easy - Jean Carn

2.   Boulevard Blues - Uni Sono

3.   Anticipation - Willie Tee

4.   House Of Mirrors - David McCullum

5.   Can You Feel It - Keiko Amae

6.   The Macaroni Man - Jimmy Jules And The Nuclear Soul System

7.   Deal With It - Carolyn Franklin

8.   Super Duper Love - Sugar Billy

9.   Tracks of Love - The Solid Gold Orchestra

10. It Must Be Love - Dayton

11. I Will Love You Anyway - Harry Ray 

12. Pedra Bonita - Marcio Montarroyos

13. Chicago - Kiki Dee

14. Dark Orchid - Sammy Nestico

15. Rose - Giovanni Nuti

venerdì 7 febbraio 2025

Sweet Vendetta - Adrian Gurvitz (1979, Jet)


Sì, proprio “quel” Gurvitz: quello dei Gun, dei Three Man Army e della Baker Gurvitz Army, noto da noi per la melensaggine di Classic. Ma dimenticatevi “quel” Gurvitz e ascoltate Sweet Vendetta, un album che ha creato una piccola cerchia di culto intorno all’artista, soprattutto tra i fan del Yacht Rock. Pubblicato nel 1979 dopo lo scioglimento della Baker Gurvitz Army, Sweet Vendetta segna l’esordio solista di Gurvitz. Chi si aspettava una continuazione del sound della band rimase profondamente deluso, tanto che, complice il ricordo di pezzi come Race With the Devil, lo accusarono di tradire la causa del rock. Poco male: nella musica, come nella vita, serve elasticità mentale, qualità che i musicisti hanno ma che spesso manca ai puristi.  

In Sweet Vendetta, Gurvitz abbraccia il lussureggiante pop Westcoast californiano, all’epoca considerato il non plus ultra per produzioni impeccabili e turnisti d’élite. E infatti tra i musicisti spiccano nomi come Jeff e Steve Porcaro, David Hungate, David Paich e Jerry Hey. I brani, tutti firmati da Gurvitz (che curò anche la produzione), sono un viaggio senza intoppi per chi non ha pregiudizi verso il genere. Spiccano mid-tempo come The Wonder of It All, Put a Little Love (con fiati incisivi e un notevole assolo di chitarra elettrica dello stesso Gurvitz) e The Way I Feel, oltre alla notevole ballad One More Time. Alcuni brani risentono della disco-music dell’epoca, ma con una classe rara: ascoltate Love Space, danzabile ma anni luce dalla disco scontata, trita e ritrita riproposta in certi programmi tv in quota nostalgica. 

Dopo Sweet Vendetta, Gurvitz pubblicherà altri due dischi, incluso quello del famigerato tormentone Classic, ma nessuno regge il confronto col lavoro del ’79. Dopo il successo del singolo, si ritirò dalle scene per scrivere per altri artisti (sua è Even If My Heart Would Break, inciso da Aaron Neville e Kenny G nel 1992, inserita nel film “The Bodyguard”), salvo tornare nel ’96 con un album acustico.  

Peccato che nella sua breve carriera solista non abbia proseguito su quelle sonorità soul-pop, preferendo un easy-listening più banale. Resta il fatto che Sweet Vendetta, oggi come oggi, è ancora un piacere per le orecchie.  





giovedì 6 febbraio 2025

The Language of Life - Everything But The Girl (1990, Atlantic Records)

C’è un momento, nella carriera di ogni artista, in cui osare diventa necessario. Per gli Everything But The Girl quel momento arrivò nel 1990, quando accettarono di trasformare il loro minimalismo britannico in un disco lussuoso, sontuoso, quasi hollywoodiano, senza perdere l’intimità che li ha resi leggenda. Ieri The Language of Life ha compiuto 35 anni: un’occasione per riscoprire un album che è un ponte sospeso tra due mondi. 

Quando il produttore Tommy LiPuma - maestro di iper-produzioni raffinate, dove ogni nota è un calcolo perfetto - ascoltò per la prima volta la voce calda e ipnotica di Tracey Thorn e l’arte minimalista di Ben Watt, fu un colpo di fulmine. Li volle in America, deciso a plasmare un lavoro intriso di quel pop/soul californiano che pochi sapevano cantare. Gli EBTG, inizialmente scettici, cedettero un anno dopo: nacque così un disco che li trasformò, senza tradirli.  

The Language of Life è un paradosso: una colonna sonora levigata fino all’ossessione, eppure calda, umana. Merito della voce di Tracey, capace di rendere soul anche il suono più pulito. E dietro le quinte, un dream team di musicisti da brivido: Stan Getz, Kirk Walhum, Marc Russo e Michael Brecker al sax, Joe Sample e Russell Ferrante alle tastiere, Vinnie Colaiuta e Omar Hakim alla batteria, John Patitucci al basso, Michael Landau alla chitarra, Lenny Castro alle percussioni, Jerry Hey al flicorno. Eppure, al centro di tutto, c’era sempre lei: Tracey. La sua voce non cantava le parole, le abitava.

The Language of Life fu accusato di essere troppo levigato, troppo americano per un duo inglese. Ma chi lo ascolta oggi sente altro: la complessità nascosta dietro l’apparente semplicità. Prendi Driving, con la voce della Thorn che scivola come pioggia sui vetri, prendi Letting Love Go, la perfezione fatta canzone, o The Road, dove il sax di Getz e la voce di Ben si fondono, facendo  nascere un dialogo silenzioso che parla direttamente all’anima. Sì, è pop nella forma - melodie che si incollano alla memoria - ma è soul nella sostanza, perché ogni nota racconta una verità. E Tracey, in questo, è una medium: trasforma canzoni d’amore in confessioni universali. 

Perché ascoltarlo ancora?  

Perché è un disco che invecchia al contrario: più passa il tempo, più rivela sfumature. Perché è la prova che un produttore geniale non soffoca gli artisti, ma ne accende la luce. E soprattutto, perché è un inno alla bellezza rischiosa - quella che nasce quando abbandoni la tua zona sicura e ti affidi al talento degli altri, senza paura di perdere te stesso. 





mercoledì 5 febbraio 2025

Tokyo Groove: Viaggio Nel City Pop - Tatsuro Yamashita - Seconda Parte

Seconda ed ultima parte della puntata dedicata a Tatsuro Yamashita


Moonglow - (1979, Air Records)


Il 1978 ci regala altri due album di Yamashita: Pacific, un lavoro strumentale frutto della collaborazione con Haruomi Hosono e Shigeru Suzuki, e il live It’s Poppin’ Time. Nel 1979 arriva Moonglow, esordio di Yamashita con un’etichetta indipendente e che consentirà all’artista più libertà d’espressione, segnando un ulteriore passo avanti nella carriera di Yamashita, che affina la propria tecnica vocale, mai così precisa. L’album si distingue per una sonorità morbida, dove colpiscono la bellezza e la raffinatezza degli arrangiamenti, sempre originali e mai banali. Un esempio perfetto di questo è Full Moon. Molti dei brani sono scritti da Minako Yoshida, in collaborazione con le composizioni di Yamashita. Il disco predilige le mid-ballad in stile yacht rock, e sorge spontanea una domanda: visto che l’album è del 1979, quanto questa scelta musicale sia stata influenzata dalle tendenze dell’epoca, o se invece si tratti di un’anticipazione delle sonorità che avrebbero dominato gli anni a venire. A movimentare l’album, arriva Funk Flushin’, un prelibato pezzo disco/funk dalle suggestioni latin, mentre Hot Shot è una cavalcata soul che, con il suo assolo di chitarra elettrica, pesca nel territorio degli Isley Brothers, risultando semplicemente bellissima. Dopo una ballad e un pezzo in puro stile City Pop, ecco tornare un brano funk alla EW&F con Yellow Cab, probabilmente una delle passioni di Yamashita, una traccia che esplora temi di eccitazione, incertezza e disorientamento, utilizzando l’esperienza di un viaggio in taxi come metafora per il percorso imprevedibile della vita. L’album si chiude con un altro brano in stile “perfect city pop”, scritto da Minako Yoshida, un pezzo solare che celebra il desiderio di vivere appieno l’amore. Moonglow è l’album di Yamashita che è rimasto più a lungo nella classifica Oricon, oltre cinquanta settimane, testimoniando il suo duraturo impatto nel panorama musicale giapponese.



Ride on Time - (1980, Air Records)


L’inizio degli anni Ottanta segna un momento di straordinaria creatività per Tatsuro Yamashita, pronto a inaugurare il decennio con il primo dei suoi due capolavori assoluti del City Pop. Ride On Time scorre in modo impeccabile: è qui che il City Pop raggiunge la piena maturità, superando l’imitazione dei suoni occidentali per trasfigurarli in un linguaggio musicale nuovo e profondamente originale. Yamashita riesce a entrare in simbiosi con certe sonorità a tal punto da trasformarle in qualcosa di unico, dando vita a un genere personale e autentico.

Purtroppo, il pubblico occidentale ha scoperto questa gemma solo quarant’anni dopo la sua pubblicazione: negli anni Ottanta, il cantato in giapponese costituiva un ostacolo quasi insormontabile per la distribuzione internazionale, confinando capolavori come Ride On Time al mercato nipponico.

L’album si apre con un City Pop solare e accattivante nei brani Someday e Daydream, per poi virare verso un funk energico con Silent Screamer, arricchito da un assolo di chitarra che testimonia l’abilità di Yamashita anche come strumentista. Il brano omonimo, Ride On Time, è l’emblema del genere e rappresenta un punto di partenza ideale per chi si avvicina per la prima volta al City Pop.

La seconda metà dell’album adotta toni più morbidi, ben rappresentati dal mid-tempo Summer e no Tobira, un pezzo in stile balearic scritto da Minako Yoshida, e dalla ballad My Sugar Babe, un omaggio alla vecchia band di Yamashita, gli Sugar Babe. Ancora una ballad si trova in Rainy Day, originariamente scritta per l’album Monochrome di Minako Yoshida e qui riproposta in una versione meno minimalista, con un’eleganza che richiamano sonorità jazz notturne. Con il mid-tempo Kumo no Yukue ni, invece, entriamo nel territorio dello yacht rock, interpretato con quell’eleganza inconfondibile che caratterizza Yamashita.

Il finale è affidato a Oyasumi (Kissing Goodnight), una dolce ballad per sola voce e pianoforte, che ci accompagna verso il mondo dei sogni.

Se Ride On Time è l’album che ha consacrato Yamashita e il City Pop nel pantheon della musica giapponese, due anni dopo il musicista sorprenderà gli appassionati con il suo capolavoro definitivo.



For You - (1982, Air Records)


Il 1981 vedrà Yamashita impegnato in un tour attraverso il Giappone insieme ai suoi musicisti, senza nuove uscite discografiche. Tuttavia, l’inizio del nuovo anno, cruciale per le sorti del City Pop, segnerà il debutto di artisti chiave per il genere e la pubblicazione di album destinati a entrare nella storia. Tra questi spicca quello che è considerato il capolavoro definitivo di Yamashita, nonché uno degli album più significativi del genere: For You.

L’album si apre con un riff di chitarra incredibile, riconoscibile tra mille, che è diventato presto iconico e inimitabile. Questo introduce Sparkle, uno dei vertici creativi di Yamashita e del City Pop: un brano funk travolgente, sostenuto da una linea di basso irresistibile e fiati che sembrano provenire direttamente da un’altra dimensione.

Music Book ci porta in territori di puro yacht rock, con un brano luminoso e dal sapore estivo. Dopo un breve interludio, arriva la cover di Morning Glory, originariamente interpretata da sua moglie, Mariya Takeuchi. Yamashita riesce nell’impresa di superare l’originale, trasformando l’introduzione in uno stile più intimista e regalando al brano un’atmosfera rilassata e calda, perfetta per evocare un risveglio mattutino accanto alla persona amata.

L’album prosegue con Futari, una blues ballad ricca di atmosfera, dove Yamashita si cimenta al pianoforte. Con Loveland Island, invece, il disco si immerge nelle sonorità brasiliane, evocando paesaggi tropicali. Love Talkin’ è un pezzo funky in pieno stile yacht rock, arricchito da un assolo di chitarra centrale e da una linea di basso decisa e raffinata.

Hey Reporter cambia registro: è un’invettiva di Yamashita contro i paparazzi e i giornalisti che lo assediarono nei giorni precedenti al suo matrimonio con Mariya Takeuchi. Il brano si muove su un groove funky dal piglio deciso, con un tiro rock alimentato da un assolo di chitarra nervoso e carico di rabbia. Il disco si chiude con Your Eyes, una ballad romantica in stile crooner, che richiama le classiche ballad pop-soul degli anni ’80, enfatizzate da un emozionante assolo di sax.

La ristampa dell’album include alcune bonus track, tra cui spicca あまく危険な香り (That Sweet & Dangerous Scent), brano pubblicato come singolo prima dell’album e colonna sonora di una serie TV omonima. Si tratta di un mid-tempo elegante e irresistibile, che incarna perfettamente lo stile del miglior yacht rock mellow.

For You si distingue non solo per la qualità delle sue canzoni, ma anche per arrangiamenti e produzione impeccabili, eseguiti con una precisione tale da reggere il confronto con le più sofisticate produzioni occidentali, come quelle maniacali degli Steely Dan. È un disco che non ha bisogno di più ascolti per essere apprezzato: rimane una pietra miliare del City Pop e una delle vette più alte mai raggiunte da Tatsuro Yamashita.


FINE DELLA SECONDA E ULTIMA PARTE




martedì 4 febbraio 2025

Tokyo Groove: Viaggio Nel City Pop - Tatsuro Yamashita - Prima Parte

C’è qualcosa di magnetico nella musica di Tatsuro Yamashita, una qualità che trascende il tempo e lo spazio, catturando l’essenza di un’epoca e trasformandola in un viaggio infinito. Nato il 4 febbraio 1953 a Tokyo, Yamashita è una figura chiave del city pop, non solo per i suoi album, ma anche per il suo ruolo cruciale come produttore, arrangiatore e turnista in alcune delle opere più belle del genere.

La sua carriera è iniziata con gli Sugar Babe, una band che condivideva con Taeko Ohnuki e Kunio Muramatsu. Nonostante abbiano pubblicato un solo album, l’elegante e intenso Songsdel 1975, il gruppo ha lasciato un’impronta indelebile sulla scena musicale giapponese. Quando gli Sugar Babe si sciolsero nel 1976, Yamashita era pronto a intraprendere la carriera da solista.

Fin da subito si è distinto come un musicista completo, ossessionato dalla perfezione sonora. Registrava personalmente quasi ogni elemento delle sue canzoni: dai cori agli arrangiamenti di chitarra, dai sintetizzatori alle percussioni. Eppure, la sua musica è molto più di un esercizio tecnico: è un racconto del Giappone moderno, delle sue ambizioni e delle sue contraddizioni, uno specchio di una nazione in rapida trasformazione.

Nonostante il successo, Yamashita è rimasto una figura discreta, più a suo agio in studio che sul palco, preferendo il lavoro meticoloso all’attenzione dei media. Fuori dal Giappone, il suo nome rimane relativamente sconosciuto. Il suo catalogo è disponibile solo in parte sulle piattaforme di streaming internazionali, e spesso è necessario uno sforzo dedicato per scoprirlo. Ma forse è proprio questo il fascino della sua opera: come le gemme più rare, la musica di Tatsuro Yamashita è apprezzata al meglio quando viene scoperta lentamente e con cura.

In questa serie di articoli esplorerò la sua discografia, partendo da Circus Town (1976) fino ad arrivare a For You (1982).



Circus Town - (1976, RCA)


Circus Town non è il vero esordio di Tatsuro Yamashita. Il debutto risale al 1972 con Add Some Music To Your Day, un album oggi rarissimo e molto ambito dai collezionisti, dove emerge chiaramente l’amore di Yamashita per i Beach Boys e per l’epoca d’oro del songwriting americano. È con Circus Town che inizia il periodo per cui Yamashita sarà ricordato: un autentico deus ex machina nel rinnovamento della musica pop giapponese.

Pur essendo un lavoro ancora acerbo, l’album lascia già intravedere il genio di Yamashita e il suo talento nel reinterpretare il city pop attraverso sonorità ispirate al westcoast pop americano. La struttura dell’album riflette questa dualità: nella prima parte, soprannominata New York Side domina l’influenza della disco, declinata secondo le atmosfere sofisticate del Philly Sound; nella seconda parte, ribattezzata Los Angeles Side, si entra invece in territori più vicini al Laurel Canyon sound, quel cantautorato intimo reso celebre da Carole King e dalle sue eredi. Circus Town è un album che, pur non raggiungendo le vette dei lavori successivi, anticipa già la grandezza di Yamashita, mostrando una visione artistica ben definita e una capacità straordinaria di fondere influenze internazionali con il contesto giapponese. Un’opera che, già di per sé, è notevole e lascia presagire le meraviglie che seguiranno.



Spacy - (1977, RCA)


Con Spacy, Yamashita non si limita a tracciare le coordinate di un genere emergente, ma lo incarna con una visione tanto lucida quanto lungimirante. Fin dalle prime note di Love Space, l’ascoltatore è catturato da un microcosmo sonoro che prefigura il City Pop come sarà conosciuto dai suoi appassionati. L’album si distingue per la partecipazione di musicisti di grande rilievo, tra cui Haruomi Hosono, Ryuichi Sakamoto, Minako Yoshida, Kenji Ohmura e Hiroshi Sato, che contribuiscono a creare un sound ricco e sfaccettato. Spacy rappresenta un’evoluzione sia stilistica sia contenutistica rispetto al lavoro precedente: le sonorità si fanno quasi eteree, e le influenze West Coast si bilanciano perfettamente con elementi jazz e blues, come si può apprezzare in Candy, uno dei primi capolavori di Yamashita. L’eleganza orchestrale di Dancer sembra quasi dialogare con le grandi produzioni californiane degli anni ’70, ma con un tocco giapponese che ne esalta la nitidezza. In Spacy c’è anche spazio per una delle ossessioni di Yamashita: i Beach Boys, o meglio, Brian Wilson. Le tracce numero otto e nove sono infatti due brani che, se non fossero cantati in giapponese, potrebbero essere facilmente riconducibili al genio di Inglewood. La conclusione affidata ai sette minuti di Solid Dancer (uno dei migliori brani scritti da Yamashita) è invece un ritorno al Westcoast pop, caratterizzato da un groove inconfondibile, ma mantenendo una raffinatezza unica che solo Yamashita sa imprimere alla sua musica. In questo brano, inoltre, non siamo lontani dai protagonisti americani di quella stagione, anzi. Pur essendo stato registrato negli anni ’70, Spacy conserva una freschezza e una rilevanza capaci di affascinare sia i cultori del City Pop che le nuove generazioni di ascoltatori. 



Go Ahead! - (1978, RCA)


Go Ahead è un album che si apre con un pezzo deep funk straordinario, Love Celebration, caratterizzato da una linea di basso slap e un ritmo che richiama gli Earth, Wind & Fire al loro apice. L’intero lavoro si distingue per una felice fusione di jazz, funk, soul e pop. Brani come Let’s Dance BabyBomber e la commovente The Whispering Sea (潮騒, Shiosai), che Yamashita ha cantato anche in inglese, non solo sono destinati a diventare pezzi iconici, ma rappresentano anche un’evoluzione stilistica e l’affermazione di una sensibilità unica nella mescolanza di generi. Il funk puro fa ritorno verso la fine del disco con Paper Doll, preludio di This Could Be The Night, un brano che si discosta dal resto dell’album, in quanto rievoca lo stile dei Beach Boys filtrato attraverso la lente di Phil Spector. Potremmo dire che suona come se Pet Sounds fosse stato realizzato con la tecnica del wall of sound, e Yamashita lo interpreta in un ottimo inglese. Parlando di wall of sound e Pet Sounds, aggiungiamo la sensibilità pop di Yamashita, e avrete 2000T of Rain, l’incredibile pezzo che chiude l’album.

All’epoca, l’album ricevette critiche per la sua apparente disorganicità, ma ditemi, dopo aver ascoltato un lavoro del genere, che sostanza avevano assunto quei critici. Col passare degli anni, l’album ha ricevuto il riconoscimento che meritava, ma, pur trattandosi di un grande lavoro, il meglio doveva ancora venire.


FINE PRIMA PARTE

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