Tokyo Groove: Viaggio Nel City Pop - Shigeru Suzuki
Shigeru Suzuki è uno di quei nomi che, a un certo punto, smettono di appartenere soltanto alle note di copertina per diventare una presenza silenziosa ma decisiva in tutto quello che ha preso forma nella scena giapponese degli anni ’70. Chitarrista sopraffino, classe 1951, nato a Setagaya, è stato tra i principali artefici di quella transizione elettrica e moderna che, partendo dal folk e dal rock occidentale, avrebbe poi finito per delineare i confini del City Pop.
La sua prima tappa importante è con gli Sky, ma è nel 1969 che succede il vero scarto, quando entra negli Happy End accanto a Haruomi Hosono, Takashi Matsumoto ed Eiichi Ohtaki. Un gruppo che non si è limitato a suonare canzoni, ma ha letteralmente riscritto il codice genetico del rock giapponese, imponendo per la prima volta la lingua nipponica in un contesto fino ad allora dominato da emulazioni anglofone.
Dopo lo scioglimento degli Happy End nel ’72, Suzuki non si ferma: fonda i Caramel Mama – con Hosono, Tatsuo Hayashi, Masataka Matsutoya e Hiroshi Sato – un ensemble che suona già come un’anticamera del futuro. Saranno loro, sotto il nome di Tin Pan Alley, a raffinare quel suono urbano e sofisticato che sarà poi incasellato sotto l’etichetta di City Pop, quando ancora nessuno sapeva cosa volesse dire.
Band Wagon - (1975, Panam)
Nel 1975 pubblica il suo primo disco solista, Band Wagon, registrato in parte a Los Angeles, con un cast di turnisti che la dice lunga sull’ambizione del progetto: gente dei Little Feat, dei Santana, degli Sly and the Family Stone, dei Tower of Power. Il risultato è un album che guarda più alla West Coast americana che al Giappone, con brani che oscillano tra il southern rock e un funk venato a la Dr. John. Del suo paese restano poche tracce, forse solo la voce, ma è proprio in questo ibrido straniante – e insieme perfettamente a fuoco – che Suzuki dimostra quanto la modernità, a volte, non abbia bisogno di passaporto. Musicalmente, l’album affonda le radici nel sound americano, e lo considero uno dei migliori mai ascoltati in questo genere.
Un anno dopo, nel 1976, Suzuki prese decisamente le distanze da quelle sonorità: con Lagoon si orientò verso soluzioni più leggere, anticipando il City Pop nascente. Qui privilegiò atmosfere eteree, mescolando bossa, latin (non banale, per fortuna) e suggestioni da jazz club e new age, senza mai rinunciare all’orecchiabilità. L’effetto ricorda gli album di Michael Franks degli anni Settanta. Tra i brani spiccano Lady Pink Panther, un’elegante bossa nova, e Tokyo, mentre Hawaiian sembra prefigurare la new age. Il 1977 vide Suzuki in pausa, mentre nel 1978 pubblicò tre album: due solisti e uno in collaborazione con Tatsuro Yamashita e Haruomi Hosono.
Partiamo dal primo in ordine cronologico, Caution!: già qui si intravedono le fondamenta del City Pop. L’album abbandona le atmosfere precedenti per abbracciare un sunshine pop nipponico, lasciando spazio alle sonorità yacht rock californiane. Musicalmente, il disco è un mosaico variegato: si spazia dal country al funk, come dimostrano brani come Tsupparing Blues, fino alla ballad intimista della traccia conclusiva Moon Baby. Il tratto distintivo di Caution! risiede nella capacità di fondere con sapienza elementi della musica occidentale con una sensibilità tipicamente giapponese.
Pacific, come già accennato, è l’album pubblicato nel 1978 in collaborazione con Hosono e Yamashita, in cui ciascun musicista firma e interpreta brani autonomi. Suzuki vi partecipa con tre pezzi strumentali, emblematici dell’intero progetto: un sound jazz/fusion che evoca atmosfere estive e spensierate.
Nello stesso anno, Suzuki rilascia Telescope, il suo nuovo lavoro solista, dove fanno la loro comparsa sonorità disco. Del resto, da artista globale e attento alle correnti internazionali, era inevitabile che assimilasse queste influenze. Ma c’è una precisazione necessaria: la disco di Suzuki si fonde organicamente con il pop giapponese, o per definirlo con precisione, con il City Pop. L’album accentua ulteriormente le suggestioni californiane, inserendole in un contesto pop immediatamente accattivante ma mai scontato. Tra i suoi lavori fino a quel momento, Telescope si distingue come il più marcatamente pop e quello dall’identità stilistica più coerente, confermando la maturità artistica del musicista.
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