“Smile”: il sogno interrotto di Brian Wilson


Rilasciato ufficialmente nel 2011 dopo l’“anteprima” del 2004 firmata Brian Wilson & Wondermints, Smile apparve agli appassionati come il Santo Graal della musica pop finalmente ritrovato. L’album “perduto” dei Beach Boys, circondato per decenni da leggende e mitologie, era finalmente disponibile nella sua forma (quasi) definitiva.


A lungo rimandato a causa dell’esaurimento nervoso di Brian Wilson e delle tensioni interne alla band, Smile è stato oggetto di infinite speculazioni. Ma una volta ascoltato nella sua interezza, lascia aperta una questione non banale: è davvero il capolavoro che molti aspettavano, oppure solo un affascinante abbozzo di ciò che avrebbe potuto essere? Personalmente, propendo per la seconda ipotesi. Lo trovo un album incompiuto, anche se contiene almeno quattro autentici capolavori.

Mi spiego. Pet Sounds è un’opera chiusa, finita, perfettamente compiuta: ogni brano ha un suo equilibrio interno, una sua funzione nel disegno complessivo. Smile, invece, è un puzzle incompleto, pieno di frammenti, schizzi sonori, intuizioni a metà strada tra la genialità e l’improvvisazione. È come se stessimo ascoltando il laboratorio sonoro di Brian Wilson e del paroliere Van Dyke Parks più che un disco nel senso pieno del termine. 


Riascoltandolo recentemente, mi è venuto spontaneo un paragone con i Prigioni di Michelangelo: le celebri sculture incompiute che sembrano voler emergere dal marmo ma restano intrappolate nella materia. Così anche molte tracce di Smile sembrano canzoni che lottano per venire alla luce, ma restano imprigionate nel pentagramma, in uno stato di bellezza potenziale mai del tutto realizzata. Un senso di fascino e di rimpianto che si alimentano a vicenda.

A brillare con luce piena, però, sono almeno quattro episodi:

“Our Prayer”: un’introduzione a cappella vertiginosa, in cui le armonizzazioni vocali raggiungono un’intensità quasi mistica. Un momento di pura astrazione sonora, come un madrigale sacro che parla direttamente al divino della musica.

“Heroes and Villains”: composizione complessa e stratificata, quasi barocca,  apparentemente giocosa, ma in realtà costruita con un’intelligenza musicale rara. Canzone con continui sbalzi dinamici che richiedono più ascolti per essere completamente afferrati. 

“Surf’s Up”: probabilmente la vetta più alta della poetica di Brian Wilson. Una canzone dolente e sublime, il requiem di un’epoca, magnificamente sorretta da una struttura musicale e vocale in stato di grazia.

“Good Vibrations”: il capolavoro assoluto. Una canzone che non ha bisogno di presentazioni, la dimostrazione vivente di cosa Smile sarebbe potuto diventare se non fosse stato travolto dalle fragilità del suo autore. L’apice emotivo e tecnico di tutta l’esperienza Beach Boys. 


Smile è stato concepito da Brian Wilson per stupire il mondo più di quanto non avessero fatto i Beatles con Sgt. Pepper. E probabilmente ci sarebbe riuscito, se fosse uscito nel 1967 come previsto. Ma le cose andarono diversamente, e ciò che oggi ci resta è il ricordo di un’opera abortita nel suo momento più alto. Un sogno bruscamente interrotto, come una sinfonia lasciata a metà.

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