Tokyo Groove: Viaggio Nel City Pop - Momoko Kikuchi

 

C’è un motivo se un’etichetta come la Light in the Attic ha deciso di ristampare Adventure, un disco di City Pop del 1986, firmato da una pop idol come Momoko Kikuchi. E quel motivo è la qualità del disco. Nonostante la voce di Kikuchi corrisponda all’immaginario di come cantava una tipica pop idol giapponese degli anni ’80, l’album brilla per la sua raffinatezza musicale, distante anni luce da un mero esercizio di pop superficiale. 



Adventure - (1986, Vap/2020 Light in the Attic)


Adventure, pubblicato nel 1986, è uno dei migliori esempi usciti dalla prolifica “fabbrica” delle pop idol giapponesi dell’epoca, capace di sfornare fino a tre album all’anno per ogni artista.


Ma facciamo un passo indietro. Momoko Kikuchi nasce a Shinagawa, Tokyo, nel 1968. Inizia la carriera nel 1983 e debutta come pop idol nel 1984, pubblicando il primo singolo poco prima del suo sedicesimo compleanno. Da lì in poi, la sua ascesa è rapidissima: tra il 1985 e il 1987, sette sue canzoni consecutive raggiungono la vetta della classifica Oricon, rendendola una delle figure più riconoscibili dello stardom pop giapponese. Adventure stupisce per il suo romanticismo crepuscolare e per brani che si imprimono nella mente con facilità. È un tipo di pop fortemente influenzato da suggestioni occidentali, vicino all’R&B più elegante degli anni ’80, con una coerenza che raramente si trova in dischi di questo tipo. Ogni traccia è perfettamente calibrata, senza filler, sostenuta da arrangiamenti di alto livello e una produzione impeccabile. 


La parabola di Kikuchi, però, si chiude rapidamente. Dopo altri due album, nei primi anni ’90 abbandona volontariamente lo status di pop idol per esplorare nuovi territori musicali. Forma i RA-MU, una band rock che non ottiene successo, ma che le consente di lasciarsi alle spalle il mondo dorato del pop mainstream. In seguito, Kikuchi si reinventa come attrice, ottenendo buoni risultati.


Eppure, di fronte a un album come Adventure, non c’è nulla di cui vergognarsi. Con la sua leggerezza – nel senso più nobile del termine – e la sua coesione artistica, è un disco che avrebbe fatto bene anche al pop occidentale. 










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