Tokyo Groove: Viaggio Nel City Pop - Makoto Matsushita
Autore di appena quattro album pubblicati tra il 1981 e il 2021, Makoto Matsushita resta una figura sfuggente ma imprescindibile nel panorama della musica giapponese più raffinata. Con “First Light”, il suo debutto da solista, ha regalato uno degli esempi più compiuti di yacht rock mai usciti dal Giappone – forse il più limpido e fedele allo spirito originale del genere, ancora lontano da quelle ibridazioni con l’urban pop che, negli stessi anni, stavano dando forma al sound del nascente City Pop.
La storia musicale di Matsushita, però, comincia ben prima. Nato a Kakegawa il 16 novembre 1955, a diciott’anni si iscrive alla Yamaha NEM Music School, dove affina tecnica chitarristica, scrittura e arrangiamento. Ma è un talento precoce e inquieto: già a diciannove anni lascia gli studi per buttarsi nel mondo della musica come turnista, e da lì in poi si muove senza sosta. Lo troviamo a fianco di nomi come Junko Yagami, Seiko Matsuda, Mai Yamane ed Eiichi Ohtaki, mentre nel 1979 dà vita al progetto Milky Way insieme al pianista Kazuo Nobuta. Poco dopo sarà tra i fondatori degli AB’s, in compagnia di Fujimal Yoshino, contribuendo a definire i contorni di una scena musicale che stava diventando sempre più interessante.
Dopo “First Light”, nel 1982 pubblica “The Pressures and the Pleasures” per Moon Records, l’etichetta guidata dall’ex presidente di RCA/AIR. L’anno seguente arriva “Quiet Skies”, e poi un lungo silenzio discografico, interrotto solo nel 2019 con “Visions” – ultimo tassello di una produzione solista distribuita in quattro decenni, come a voler lasciare impronte discrete ma durature.
“First Light” non ha davvero nulla da invidiare alle produzioni americane dell’epoca. Gli arrangiamenti sono curati con maniacale eleganza, le armonie sofisticate ma mai fredde, la scrittura precisa e piena di gusto. È un disco che guarda agli Steely Dan più accessibili, al Marc Jordan di Blue Desert, alle produzioni levigate di Jay Graydon e David Foster, senza mai suonare come una semplice copia d’importazione. Il suono è morbido, notturno, impreziosito dal Fender Rhodes, chitarre pulitissime e fiati usati con misura: tutto concorre a creare un’atmosfera coerente, seducente, autentica. L’unico possibile scoglio per l’ascoltatore occidentale potrebbe essere il cantato interamente in giapponese – fatta eccezione per un brano in inglese – ma anche questa barriera, una volta superata, si trasforma in punto di forza. La lingua si fonde perfettamente con le sonorità dell’album, contribuendo ad accentuarne il fascino esotico senza risultare mai respingente.
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