Generi Musicali: il Quiet Storm
Quando la musica soul ha smesso di farsi portavoce delle istanze politiche e della ribellione, per abbracciare sonorità che ridefinivano la musica da ballo, prima di abbassare improvvisamente la voce? Non c’è una data certa, ma il 1975 può essere indicato come un anno di passaggio. Proprio in quell’anno, una leggenda della Motown pubblica un album che segnerà l’avvio di un nuovo filone, tanto riconoscibile da essere identificato come un microgenere autonomo all’interno del soul. L’artista è Smokey Robinson, l’album si intitola “Quiet Storm”. Quest’album inaugura una nuova idea di soul, e dà anche il nome a un programma radiofonico notturno su WHUR-FM, condotto da Melvin Lindsey. Dal 1975 in poi, “Quiet Storm” diventa non solo un brano o un album, ma un’atmosfera, una musica da ascoltarsi nelle ore notturne, in casa di ritorno dal lavoro, un ascolto che diventa individuale o da ascoltare in compagnia della persona amata. È il soul che abbraccia la morbidezza, il silenzio sussurrato, lontano dal centro della scena e che rimane in sottofondo.
Il Quiet Storm quindi nasce in un preciso momento storico, e in una precisa cornice sociale, quella della classe media afroamericana in crescita, urbana e consapevole, che cerca un’estetica diversa rispetto al soul militante e al funk più torrido. E la troverà in una musica dal passo lento, con le linee di basso profonde, gli arrangiamenti eleganti con archi, fiati (prediligendo il sax) e tastiere elettriche. Le canzoni si fanno racconti di esperienze amorose, talvolta anche esplicite, e spesso le accompagnano. Ma è anche musica che racconta di solitudini, di amori impossibili e cuori infranti.
Saranno gli anni 80 l’epoca d’oro del Quiet Storm, in pieno riflusso, lasciando da parte un decennio turbolento e trovando così la sua forma più compiuta. Tre saranno i punti di riferimento del genere: Luther Vandross ne sarà la figura chiave, con la sua capacità di rendere emozione pura anche una linea melodica apparentemente semplice, Anita Baker grazie al suo album capolavoro “Rapture”, (1986) forse il punto più alto del Quiet Storm, grazie a brani subito riconoscibili, un vero manifesto del genere mai più eguagliato. Anche Sade, pur restando in una dimensione tutta sua, si muove lungo traiettorie simili: “Diamond Life” (1984) è un disco che ha definito il concetto stesso di eleganza emotiva. Ma sarebbe ingiusto citare soltanto questi tre nomi, dacché il Quiet Storm ha avuto interpreti di gran classe che meritano almeno una menzione: Freddie Jackson, Peabo Bryson, Regina Belle, Phillys Hyman, Angela Bofill, i Maze di Frankie Beverly, i fratelli Isley nella loro fase più dolce. Anche Marvin Gaye, in Let’s Get It On, e alcune ballate di Al Green o Roberta Flack possono essere considerate anticipazioni del genere.
Ma il Quiet Storm ha saputo dialogare anche in campi musicali affini, come ad esempio la fusion e il blue-eyed soul, i quali ne hanno condiviso l’intenzione; creare un suono rilassato ma non superficiale, adatto all’ascolto continuo e non distratto. George Benson, Grover Washington Jr., David Sanborn: anche in assenza di voce, l’emozione è presente. E poi gli artisti bianchi dalle voci black, che molto si avvicinavano a questa sensibilità; penso a Boz Scaggs, Michael McDonald, Bobby Caldwell, Valerie Carter.
Negli anni Novanta e Duemila, le tracce del Quiet Storm si ritrovano nelle slow jam, nel neo-soul, nei lavori di Maxwell, D’Angelo, Jill Scott, Erykah Badu, Devin Morrison, Keith Sweat. Il linguaggio si aggiorna, ma il nucleo resta: la voce e la produzione non cercano più l’effetto, ma costruiscono un clima, si adagiano su un’emotività tenue, quasi sospesa. È un’eredità che continua ancora oggi, anche se con altre forme e altri contesti. Eppure, quando si torna ai dischi originali, quelli che hanno segnato il genere, si avverte qualcosa di unico. Non si tratta di semplice raffinatezza o di nostalgia ben confezionata. Non c’è bisogno di enfatizzare nulla, tutto si muove con naturalezza, tra intimità e malinconia, senza ostentazione.
Personalmente mi capita spesso di mettermi ad ascoltare questo genere, per me, il Quiet Storm è una specie di rifugio. Quando ho bisogno di rallentare, quando voglio stare solo con i miei pensieri o con chi amo, metto su “If Only For One Night” di Luther Vandross, “If You Were Here Tonight” di Alexander O’Neal o “Sweet Love” di Anita Baker e so che sto tornando a casa. Non c’è bisogno di dire molto: bastano pochi accordi, una voce calda, una melodia che ti resta dentro. Il soul, a volte, sa essere più forte quando si fa piccolo.
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