Paolo Conte - Paolo Conte (1984, CGD)
Nel 1984, anno di uscita dell’album Paolo Conte, lo chansonnier astigiano era ancora un nome di culto per pochi adepti, lontano mille miglia dai riflettori che, solo in seguito, lo avrebbero trasformato in motivo d’orgoglio per l’Italia canzonettara e un nome di tendenza per i personaggi di un improbabile jet-set italico, presenzialista e caciarone. Quell’anno l’album non entrò nemmeno nei primi cento dischi più venduti in Italia, classifica allora dominata da Vasco Rossi, Gianna Nannini, De Gregori e Venditti.
Troppo particolare, in quel periodo, una proposta musicale che metteva al centro il jazz degli anni d’oro — era pre be-bop — un gusto spiccato per il calembour vocale, un’eleganza anacronistica che richiedeva ascolto attivo e orecchio allenato. Se qualcuno già apprezzava il Conte autore per altri, spesso senza sapere che quei brani li avesse scritti lui, davanti al Paolo Conte interprete la reazione più comune era una sola: “Non sa cantare, continui a scrivere per gli altri”.
E invece fu proprio questo a farmelo amare fin da subito: quella sua finta imperfezione nel canto, quella voce impastata e per nulla accomodante, unita a una precisione tecnica strumentale nei suoi collaboratori che, ancora oggi, lascia stupefatti se paragonata alla cialtroneria e alla piaggeria di tanti altri artisti ben più noti. Questo è il disco più personale di Paolo Conte, il più oscuro, il più notturno. Confesso che nel 1984, abituato ad altri generi, mi ci vollero diversi ascolti per poterne cogliere appieno la bellezza. Ma oggi, riascoltarlo, è come ritrovare un vecchio film in bianco e nero che non ha perso un fotogramma del suo fascino. È un album senza tempo, un classico che travalica gli anni, fuori moda allora e fuori moda adesso.
Qui dentro ci trovate lo swing di Cab Calloway, le notti alcoliche di Fred Buscaglione, c’è sempre il Mocambo — immaginario locale notturno per vitelloni perditempo e maliarde attempate — e c’è quel mondo di provincia che già quarant’anni fa se ne stava andando a ramengo. Oggi Paolo Conte è un “classico”, canta alla Scala e ha ampliato il suo pubblico. Ma nel 1984 era quanto di più vicino alla poetica di Tom Waits avessimo mai avuto in Italia.
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