Desperado - Eagles (1973, Asylum Records)



Quando si parla degli Eagles, si finisce quasi sempre per tornare a Hotel California o The Long Run, come se tutto il resto fosse un lungo preambolo a quei due colossi di vendite. Eppure, a ben vedere, la loro storia potrebbe essere raccontata anche come quella di un grande malinteso. Un equivoco che ha messo in ombra non solo ciò che c’era prima, ma soprattutto un disco che, lasciatemelo dire, continua a essere una presenza ingombrante – e troppo spesso ignorata – nel panorama di chi oggi si cimenta col country rock e i suoi derivati. Sto parlando di Desperado, secondo album degli Eagles e, per chi scrive, il loro vero capolavoro. Uno dei più belli di sempre, in quel crocevia tra rock, folk e country.


Uscito nel 1973, Desperado è un concept album ispirato alle gesta della banda Doolin-Dalton, un gruppo di fuorilegge attivi nel sud-ovest degli Stati Uniti a fine Ottocento. Sulla copertina, gli Eagles sono proprio loro: pistoleri sconfitti, sguardi duri, polvere addosso. Ma non si tratta solo di travestimento. Con questo disco, la band si cala davvero nei panni di quei personaggi, rileggendo il mito del West non in chiave epica, ma umana, malinconica. Quelle storie diventano metafore: la libertà individuale, la ribellione, il senso di appartenenza. Non è più il Far West dei film, è un mondo che somiglia fin troppo al nostro.


Musicalmente, l’album è un gioiello d’equilibrio. Country, folk e rock si mescolano senza sforzo, dando forma a un suono che diventerà il marchio di fabbrica degli Eagles. C’è leggerezza e giovinezza in Twenty-One, c’è la corsa senza freni di Outlaw Man, con tutto il suo presagio di caduta. Ma il cuore del disco è altrove. È nella title track, Desperado, quella ballata che ormai conoscono tutti – anche grazie alle mille cover, tra cui vale la pena ricordare quella dei Carpenters, in cui la voce di Karen Carpenter riesce a essere, se possibile, ancora più dolente e struggente. Il racconto di un fuorilegge solitario, alla ricerca di un senso, di una via d’uscita, di un perdono.


E poi ci sono le armonie vocali. Quell’impasto che ha reso gli Eagles immediatamente riconoscibili e che qui raggiunge forse il suo apice in brani come Tequila Sunrise e Saturday Night, due canzoni che sembrano fatte di crepuscolo e rimpianto. Anche i momenti meno riusciti, come Out of Control, una scazzottata in un saloon resa in forma canzone, trovano comunque un loro posto nell’insieme, grazie a un finale sonoro che traduce bene il caos della scena.


Ma c’è una canzone, in particolare, che merita di essere tirata fuori dal mazzo e guardata da vicino: Bitter Creek. Forse il pezzo più strano, più sfuggente, più affascinante del disco. Lo firma Bernie Leadon, che la canta anche, con una voce sottile e pensosa. Il brano ha un che di psichedelico, ipnotico. Sembra quasi aprire un portale su un altro West, quello dei sogni e delle allucinazioni. Gli arpeggi di chitarra sono morbidi, evocativi, e il racconto di un fuorilegge in fuga diventa una specie di viaggio interiore, tra terre bruciate e silenzi carichi di attesa. È una direzione che la band non seguirà più, e questo rende Bitter Creek ancora più preziosa. Se avessero deciso di esplorare davvero quel lato più allucinato e atmosferico, chissà che altre meraviglie avremmo potuto ascoltare.


Alla fine, quello che resta è un po’ di amarezza. Perché è vero che Hotel California, a furia di essere suonata, passata, riproposta, ha finito per far odiare gli Eagles a mezzo mondo. Ma l’effetto collaterale peggiore è che ha messo in ombra Desperado, il loro disco più bello. Un album che non ha venduto milioni di copie, che non ha generato hit da stadio, ma che ancora oggi sa parlare. A chi ha voglia di ascoltare. A chi si chiede cosa significhi essere liberi, o sentirsi fuori posto. A chi ha vissuto – o vive – da fuorilegge, anche solo per un momento, anche solo dentro di sé.




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