Se c’è una cantante giapponese che si è avvicinata maggiormente al tipo di interpretazione vocale a cui siamo abituati in Occidente, questa è senza dubbio Junko Ohashi. Il fatto che molte delle sue canzoni siano cantate in inglese contribuisce certamente a questa percezione. Nata nel 1950 a Yubari, nell’Hokkaido, Ohashi è stata una vocalist di straordinarie capacità, una delle migliori in assoluto del panorama giapponese. Ha iniziato la sua carriera cimentandosi nell’hard rock, per poi passare a sonorità soul, ispirata da artisti come Sergio Mendes e Janis Joplin.
Feeling Now - (1974, Philips)
Il suo primo album, Feeling Now, risale al 1974. In questo lavoro, Ohashi interpreta classici della musica soul e pop come Stop, Look, Listen, A Song for You, You’re My World, Killing Me Softly with His Song e Ain’t No Sunshine, oltre a brani originali, dimostrando appieno il suo notevole talento vocale. Nonostante l’album non abbia ottenuto grande riscontro durante il revival del City Pop, meriterebbe di essere riscoperto. In particolare la versione di You’re My World è una delle migliori mai incise e merita assolutamente l’ascolto.
Passano due anni e nel 1976 viene pubblicato l’album Paper Moon, che rappresenta un ulteriore passo avanti rispetto al precedente. In questo lavoro, le canzoni originali assumono un ruolo predominante, e l’album è pervaso da un’eleganza unica, capace di non risultare mai leziosa. I brani si inseriscono nel solco del pop sofisticato con influenze soul, ma anche nel vero e proprio soul dalle atmosfere funk, e la vocalità di Ohashi esprime una maturità ancora più accentuata.
Nel 1977, Ohashi pubblicò l’album Crystal City, un lavoro che non si discosta molto dal precedente. Il disco spazia tra canzoni pop con atmosfere jazz, funk, pop sofisticato e bossa nova, offrendo una varietà di stili che mette in luce la versatilità vocale di Ohashi. Tuttavia, a mio parere, l’album manca di una direzione chiara: pur includendo alcune buone tracce, sembra voler accontentare un pubblico ampio, rischiando però di ottenere l’effetto opposto. Tra i brani migliori segnalo la title track Crystal City, Funky Little Queenie e la ballad Yoruno High Way.
L’affermazione mondiale della disco influenzò anche Junko Ohashi, che nel 1978, con l’album Flush realizzato insieme alla band Minoya Central Station, introdusse alcuni brani orientati verso questo genere. Tuttavia, rimase saldamente nell’ambito del City Pop, con un sound dance che non rinuncia alla melodia. E come nei due album precedenti anche il funk fa la sua parte.
Con Flush assistiamo a un deciso cambio di marcia per Ohashi, i brani presentano arrangiamenti più curati, brani pop ancora più eleganti e una significativa apertura nei confronti dello yacht-rock. Con il suo quarto album, possiamo dire che Flush rappresenti il miglior lavoro di Ohashi fino a quel momento.
Saltiamo gli anni 1979 e 1980, anni in cui Ohashi avrà modo di pubblicare due album, Full House e Hot Life, che purtroppo non ho avuto modo di ascoltare e proseguiamo con Tea for Tears, il primo capitolo di una trilogia ideale che proseguirà con Tasogare-Postcard Fantasy (1982) e si concluderà con Point Zero (1983). Ma concentriamoci su Tea for Tears: in questo album, Ohashi raffina ulteriormente la sua proposta musicale, avvicinandosi con maggiore decisione allo yacht rock, pur senza trascurare incursioni nel samba e nella disco. Un esempio emblematico è Maroon Person, un brano che richiama fortemente le sonorità degli Steely Dan, grazie anche a un’intro che sembra uscita direttamente da Home at Last. Ma sarà con il successivo Tasogare-Postcard Fantasyche Ohashi porterà il suo sound a un livello ancora più sofisticato e internazionale.
Tasogare-Postcard Fantasy rappresenta un’evoluzione naturale del percorso iniziato con Tea for Tears, consolidando l’approccio yacht rock e incorporando elementi funk in modo ancora più deciso, con incursioni nel pop in stile Carpenters. La partecipazione di musicisti americani (Abraham Laboriel, Robben Ford, Paulinho Da Costa, Russell Ferrante, Ricky Lawson, The Phenix Horns, Carlos Rios) contribuisce a rafforzare il respiro internazionale della produzione. Se l’album fosse stato realmente inciso negli Stati Uniti, come sembra probabile (purtroppo non sono riuscito a trovare molto in rete per quanto riguarda l’esatta ubicazione della registrazione, se non un post su di un forum dedicato al City Pop, ovviamente senza avere conferma di ciò) questo dettaglio aggiungerebbe ulteriore credibilità al risultato finale, che si distingue per la qualità della produzione e degli arrangiamenti. Tasogare-Postcard Fantasy non è soltanto un punto di svolta nella carriera di Ohashi, ma anche una dichiarazione di intenti, con brani che spaziano tra ballate dal sapore jazzy e groove più ritmati, pensati per un pubblico sofisticato e cosmopolita.
Il risultato definitivo di questo percorso si concretizza con Point Zero, il capolavoro di Junko Ohashi. L’album mostra un’artista al culmine delle sue capacità vocali, esplorando una vasta gamma di stili: dal tipico R&B sintetico degli anni ’80 al funk, come nel brano A Love Affair, in cui il genere si arricchisce di rimandi alla tradizione musicale giapponese. Non mancano il soul con sfumature yacht rock, le ballad in stile Carpenters – una costante nella carriera di Ohashi – e le ballad mid-tempo perfettamente calate nell’universo yacht rock, oltre a incursioni nel soft jazz che evocano l’atmosfera di un club notturno.
A sottolineare il cosmopolitismo del disco, Ohashi canta in inglese in cinque dei nove brani presenti, riservando i restanti quattro alla sua lingua madre. Per quanto mi riguarda, Point Zero rappresenta uno dei vertici assoluti del City Pop. È un peccato che sia così sottovalutato, apparendo raramente nelle playlist dedicate al genere. Eppure, è difficile trovare un album meglio costruito di questo, sia per gli arrangiamenti che per la qualità della produzione.
Junko Ohashi ci ha lasciato nel novembre del 2023, lasciandoci in eredità una testimonianza di straordinaria versatilità e ricchezza artistica. Nonostante il suo contributo fondamentale al City Pop, la sua figura rimane meno celebrata rispetto ad altri nomi del genere. Mi auguro che, in un’epoca in cui si riscoprono artisti che definire cani e porci è far loro un complimento, Junko Ohashi possa finalmente ottenere il posto che le spetta nel pantheon della musica giapponese e internazionale.
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