I dischi da venticinquesima ora, quei dischi che ascolti quando il tempo, invece di esaurirsi, lascia intravedere uno spiraglio. Sono dischi sospesi, che non trovano posto nella frenesia del giorno né nel silenzio della notte; musiche fuori asse rispetto al già ascoltato, che non esigono nulla se non la tua presenza. Essi costituiscono la colonna sonora di ciò che accade quando apparentemente non succede nulla, eppure è proprio lì che avviene tutto. Dawn Dance, opera di Steve Eliovson e Collin Walcott, è proprio un disco da venticinquesima ora, se non il disco per eccellenza. Un album intimamente legato alle vicende dei due autori, destinati – come vedremo – a non esibirsi mai su palcoscenici altisonanti, con un sipario calato troppo presto e che non si riaprirà più.
Steve Eliovson nasce nel 1954 in Sudafrica, in un contesto oppresso dall’apartheid. Appassionato di chitarra, si trasferirà agli inizi degli anni ’70 a New York, dove aprirà un laboratorio-negozio dedicato alla vendita di chitarre e accessori correlati. Rientrato in patria nel 1978, deciderà di fare il salto verso una carriera di musicista a tempo pieno. L’idea musicale di Eliovson si colloca in quella corrente di molti artisti dell’epoca, che fusero sonorità orientali e occidentali, tanto che egli decise di inviare un demo alla sede della ECM a Monaco di Baviera. Il demo riscosse un tale successo che i dirigenti dell’etichetta misero subito sotto contratto Eliovson e, per sviluppare adeguatamente le sue idee, lo affiancarono a Collin Walcott.
Walcott, già allievo di Ravi Shankar e Vasant Rai, si rivelò la figura chiave per esaltare l’arte chitarristica di Eliovson. Eccellente sia nelle tabla che al sitar, fu incaricato di fornire la parte ritmica all’album. In seguito, Walcott diventerà uno dei membri fondatori degli Oregon, una delle prime band a creare un ponte sonoro tra oriente e occidente. All’epoca, però, vantava collaborazioni di grande prestigio: partecipò a On The Corner accanto a Miles Davis, e lavorò anche con Don Cherry e Meredith Monk. Ma ciò che ascoltiamo in Dawn Dance va ben oltre ogni possibile collaborazione con nomi celebrati; non è un’esagerazione affermare che, tra tutti i dischi pubblicati da Walcott, questo sia uno dei migliori.
L’album è composto da dieci brani, preziosi come diamanti: sette sono opera di Eliovson, due sono il frutto di una collaborazione con Walcott, e un brano è interamente opera di quest’ultimo. È difficile descrivere questo album, poiché ogni parola rischia di sembrare banale di fronte a tanta meraviglia. Si tratta di un album che emana una malinconia tenera, senza la nota amara che spesso l’accompagna, dove Eliovson compie il miracolo di far emergere un lirismo che non viene soffocato dalla tecnica della sua chitarra, mentre Walcott ricama con maestria sulle tabla. L’itinerario sonoro va da brani solari come Africa – un perfetto connubio di etnicità e mescolanza sonora – a pezzi più eterei come Memories ed Eternity, con il primo eseguito in solitaria da Eliovson.
Tra gli altri brani, merita una menzione d’onore lo straordinario Venice, un pezzo che esprime i virtuosismi di Eliovson senza renderli il tratto distintivo; Earth End ci conduce in quel territorio onirico dove hanno origine i sogni, mentre la breve Awakening, tutta farina del sacco di Walcott, è un inno meditativo che ci conduce in un universo sognante, quello in cui siamo immersi ascoltando l’elegiaca Song For The Masters, sogno che continua in Dawn Dance, un’altra fantastica esperienza sonora.
In sostanza, spero di avervi fatto comprendere che questo album trascende la semplice esperienza di ascolto. Tutto a posto? Sì, benissimo, al punto che ECM aveva già pianificato un secondo album, sebbene da qui cominciassero a manifestarsi le sfighe in serie. Nell’attesa di rientrare in sala di incisione, Eliovson andò a sciare e si ruppe una gamba, mettendo fine ai concerti e posticipando l’incisione; nel frattempo, l’attività avviata a New York si fermò, causando conseguenti problemi economici. Da quel momento in poi la vita di Eliovson divenne un mistero: la carriera di musicista terminò e lui scomparve letteralmente dal mondo della musica, mentre le notizie su di lui divennero frammentarie, alimentate da voci e “si dice” – si dice, ad esempio, che una volta guarito fosse tornato in Sudafrica per dedicarsi all’agricoltura, e che ben oltre la frattura alla gamba, fosse stata una frattura da qualche parte dell’anima a farlo svanire, come se nulla materiale di lui fosse rimasto se non le note suonate in un disco. Sappiamo che visse in solitudine gli ultimi anni della sua vita, in un appartamento offerto da un’associazione solidale giudaica, vivendo gli ultimi suoi anni in un isolamento che lo distaccò da tutti; persino nel suo ultimo viaggio, ben pochi si presentarono al suo capezzale.
La sorte di Walcott fu ancora più tragica: investito da un’auto nelle vicinanze di Magdeburgo nel 1984, durante un tour con gli Oregon, perse la vita sul colpo. La stessa infausta sorte sembrò accompagnare anche il disco, divenuto ben presto introvabile, evaporato in un sogno, fuori catalogo e rimasto per anni irraggiungibile, per poi essere meritatamente ristampato da ECM, grazie all’eco delle vicende personali del musicista e alla grande bellezza dell’album, diffusa via passaparola sul web.
Il mio consiglio è di immergervi nelle note di Dawn Dance: questa esperienza vale più di qualsiasi altra esperienza spirituale possiate compiere.
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