venerdì 29 novembre 2024

As The Time Flies - Frank Weber (1978, RCA)

L’album “As The Time Flies” di Frank Weber è uno dei migliori esempi di musica pop americana degli anni ‘70, anche se purtroppo poche persone ne conoscono l’esistenza.

Frank Weber doveva essere la risposta della RCA a Billy Joel, sotto contratto con la Columbia, ma nonostante alcune similitudini di stile, questo veniva arricchito da un mood westcoast che ricordava il James Taylor dei giorni migliori, innestandolo con una vena pop/rock tipica della costa orientale dell’epoca. 

Frank Weber spiccava anche come pianista, è stato allievo di Lenny Tristano, le sue composizioni adult/contemporary ci fanno partecipi di un pop sagace con tocchi jazz; l’album offre rielaborazioni di standard jazz e pop, brani originali orecchiabili ma non banali e toccanti canzoni d’amore. La canzone più “westcoastiana” del mazzo è “So Many Sides” con i suoi riverberi di Fender Rhodes, mentre la movimentata “Complicated Times” ricorda il Billy Joel più brillante. Molto belle anche le ballad “I Know, You Know” e “Parents”, brano che ha il tocco del miglior Randy Newman. Da segnalare anche il notevole artwork della copertina 

Nonostante la presenza di musicisti di alto calibro come Steve Gadd, John Tropea, Mike Mainieri, David Lasley e Luther Wandross  l’album non ricevette la promozione adeguata e le vendite furono scarse, rendendolo un oggetto misterioso per molti anni. Frank Weber avrà un’altra occasione dalla RCA per mostrare il suo talento, con un album omonimo pubblicato nel 1980, ma anche questo fallirà nelle vendite e la casa discografica rescinderà il contratto con il cantautore, di cui si perderanno le tracce.  

Nel nuovo millennio, grazie al sostegno di un’etichetta giapponese, Weber ritrovava la strada degli studi di registrazione, dando vita a opere che, sebbene di valore, non riuscivano a riproporre l’incanto dei suoi primi passi nel mondo della musica. Il treno della fama aveva già varcato la stazione, e Frank Weber guardava indietro con la consapevolezza di chi ha vissuto il sogno e ha visto svanire nel vento le promesse di gloria.



giovedì 28 novembre 2024

Il lungo addio: Leah Kunkel

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Non mi piace avere coccodrilli pronti nel cassetto, preferisco scrivere di getto, seguendo l’istinto del momento. Purtroppo, sempre più spesso mi trovo a vergare due righe per chi ci lascia. Sarà l’età, saranno le circostanze, ma ormai non passa giorno senza un necrologio nei media che si occupano di musica. È così, c’è poco da fare. 

Oggi vi parlerò di un’artista legata alla scena westcoast pop, scomparsa proprio ieri: Leah Kunkel. Un nome forse poco noto, tranne agli appassionati di westcoast pop o, se preferite, yacht rock. Per molti altri, anche tra le poche pagine musicali che spenderanno qualche parola su di lei, sarà più facile ricordarla come la sorella di “Mama” Cass Elliot, l’indimenticabile voce dei Mamas & Papas.

Leah Kunkel, cantautrice, arrangiatrice, produttrice e avvocato, nacque come Leah Cohen il 15 giugno 1948 a Baltimora. Dopo il matrimonio, avvenuto nel 1968 con Russ Kunkel, noto musicista turnista, adottò il cognome del marito. Nel 1966 si trasferì a Los Angeles, dove studiò canto presso il California Institute of the Arts. Due anni dopo, nel 1968, firmò un contratto con la Dunhill Records e pubblicò il singolo Billy sotto lo pseudonimo di Cotton Candy. Tuttavia dovettero passare ben dieci anni prima che la Kunkel pubblichi il suo primo album solista. Nel frattempo entra nel giro della westcoast, collaborerà al primo album di Jackson Browne e darà il suo contributo come cantante nel singolo di successo di James Taylor, “Handyman”, dove tutte le voci di sottofondo sono state eseguite da Leah. Successivamente collaborerà con alcuni dei maggiori musicisti della westcoast come Carly Simon, Stephen Bishop, Jimmy Webb, The Nitty Gritty Dirt Band, Livingstone Taylor, Dan Hill, Graham Nash, Barry Man e Arlo Guthrie. La sua collaborazione più significativa sarà però con Art Garfunkel, con cui lavorò come vocalist in “Watermark”, “Fate For Breakfast”, “Scissors Cut” e “Lefty”. Proprio Garfunkel le offrì l’opportunità di firmare un nuovo contratto discografico, che portò alla realizzazione del suo primo album solista, “Leah Kunkel”, pubblicato nel 1979.

 “Leah Kunkel” è un album di sofisticato pop californiano, molto orecchiabile ma non banale, le cui radici vanno ricercate nel sound portato alla ribalta da artiste come Carly Simon. Prodotto da Val Garay e coaduviato da un set di musicisti da paura al loro meglio, l’album include brani scritti dalla stessa Kunkel dove tra tutti spicca “Under The Jamaican Moon” (canzone che ebbe la first release nell’album di Nick DeCaro, “Italian Graffiti” nel ‘74) scritta insieme a Stephen Bishop. Degne di nota sono anche “Losing in Love” e “Fool At Heart”, quest’ultima scritta da Stephen Bishop e originariamente presente nel suo album “Bish” del 1978. Nel 1980 Leah Kunkel pubblicò il suo secondo ed ultimo album da solista, “I Run With Trouble”, che vedrà alla produzione la stessa Kunkel insieme a Henry Levy. Nonostante l’estrema cura e la notevole performance dei musicisti coinvolti, l’album si colloca un gradino sotto al precedente, anche se è comunque un bel sentire. Resta comunque un disco che oggi, con tutta la merda che gira in ambito pop, sarebbe una piacevole eccezione. 

Finita l’esperienza da solista, dovuta purtroppo alle vendite non entusiasmanti, per riascoltare Leah Kunkel dovremo aspettare fino al 1984, quando insieme a Marty Gwinn formerà il duo The Coyote Sisters. Il loro primo album, però, non riscosse grande successo, tanto che il secondo album sarà pubblicato soltanto nel 2001. 

Dopo la morte della sorella Cass nel 1974, la Kunkel accolse in famiglia il nipote, Owen, mentre il suo figlio naturale, Nathaniel, seguì una carriera come tecnico del suono, arrivando a vincere un Emmy Awards. Leah Kunkel ha proseguito negli anni ad esibirsi insieme a Marty Gwinn, e anche se non ha raggiunto un grande successo commerciale, ha comunque conquistato l’affetto dei fan del westcoast pop di tutto il mondo. Insomma, cara Leah, ti abbiamo voluto bene. 

mercoledì 27 novembre 2024

Jerry Corbetta - Jerry Corbetta (1978, Warner Bros.)


Il mondo dello yacht rock ospita numerosi musicisti che hanno all’attivo un solo album, come ad esempio Jerry Corbetta, compositore, pianista, organista e produttore. Questo nome potrebbe non suonare familiare se non agli appassionati più accaniti del genere. Corbetta è stato membro della band americana Sugarloaf dal 1969 al 1977, originariamente conosciuta come Chocolate Hair, un nome che fu cambiato in Sugarloaf per evitare possibili connotazioni razziste. Il gruppo ottenne un discreto successo negli Stati Uniti grazie al singolo, scritto da Corbetta, “Green Eyed Lady”, che raggiunse il terzo posto nella classifica di Billboard nel 1970 e che Corbetta ripropose nel suo album solista. È interessante notare come Corbetta, proveniente da un background di rock progressivo e psichedelico, abbia abbracciato il sofisticato pop californiano nel suo lavoro solista. Una scelta che potrebbe apparire sorprendente, ma che trova radici profonde nella sua voglia di esplorare nuove frontiere musicali. 

Tuttavia, l’album, come spesso accade per le opere dello yacht rock, è stato largamente ignorato dai media e non ha ricevuto il supporto adeguato dalla casa discografica (anche con un artwork della copertina che a dirla tutta non ha aiutato molto) forse troppo eclettico per essere apprezzato pienamente dall’ascoltatore medio. Nonostante ciò, “Jerry Corbetta” si rivela una vera e propria gemma nascosta, un’opera che merita di essere riportata alla luce e rivalutata. Corbetta dimostra la sua versatilità e il suo eclettismo, muovendosi agilmente tra pop, soul e soft-rock, e mettendo in risalto le sue notevoli capacità compositive. Tra le tracce più significative, segnalo “Sensitive Soul”, “I Wish That I Was Making Love”, “I’m a Lover not a Fighter”, “Caribbean Lady” e “Free Man”.

Un album che merita una riscoperta. 


martedì 26 novembre 2024

L.A. Rainbow - Dane Donohue (2024, P-Vine Records)

 


È inutile negarlo, cari miei; l’equazione che identifica lo yacht-rock in Cristopher Cross e soltanto lui, è quella che va per la maggiore in chi non conosce un cazzo del genere. Persone che pretendono di mettere bocca su qualcosa che non hanno mai approfondito davvero, fermandosi alle superficialità. Lo yacht rock è un genere sfaccettato, che non si limita a un solo artista o a un paio di hit radiofoniche: rappresenta un'epoca, uno stile di vita e una fusione di generi che va dal soft rock al jazz fusion, con influenze pop e soul. Cristopher Cross è sicuramente un pilastro, ma ridurre tutto a lui è ignorare la varietà e la profondità che questo movimento musicale ha da offrire. 

Ecco, molto probabilmente questi tuttologi del nulla non avranno mai sentito parlare di Dane Donohue. Eppure, il suo omonimo album del 1978 è una gemma nascosta dello yacht rock, un concentrato di eleganza musicale e arrangiamenti raffinati, con collaborazioni di musicisti di altissimo livello.

Ebbene, dopo ben 46 anni dalla pubblicazione del suo omonimo album, Dane Donohue è tornato tra noi con un nuovo album “L.A. Rainbow”, uscito lo scorso 4 Settembre per la benemerita etichetta giapponese P-Vine Records. Grazie al lavoro sotterraneo di John Nixon, deus ex machina del progetto di westcoast pop, Page 99, Dane Donohue è stato convinto ad uscire fuori dal lungo silenzio artistico che aveva avvolto la sua carriera.

“L.A. Rainbow” vede un Donohue in discreta forma, nonostante tutti questi anni di silenzio, l’album consta di nove brani per trentotto minuti di durata, e pur rimanendo ancorato al genere, Donohue si concede alcune digressioni come in “Fair Enough” e “Own This Heartache” brani dal sapore country ben miscelati in atmosfere westcoastiane. Altrove come in “Let it Go” sono le atmosfere jazz notturne a farla da padrone. 

Fortunatamente in “L.A. Rainbow” non c’è quel senso di forzato e di scopiazzature che possiamo ascoltare in alcuni album contemporanei del genere, qui Donohue ha risvegliato la sua scintilla creativa ed ha licenziato un disco che si pone con autenticità e maturità, e se le similitudini ci sono, possiamo trovarle nel suo primo lavoro, come è dato di ascoltare nella title track, pezzo con un bel assolo di chitarra in coda, il quale non avrebbe sfigurato nell’album del 1978. In un album Yacht-Rock che si rispetti non può mancare l’aggancio agli Steely Dan e questo lo troviamo nella conclusiva “Sunrise On The Water”, dove le influenze degli Steely Dan emergono chiaramente sia nell'arrangiamento raffinato che nelle progressioni armoniche complesse. Con il suo assolo di sax, "Sunrise On The Water" evoca quell'eleganza tipica del duo Fagen-Becker, dal groove sofisticato. È il perfetto sigillo finale per un album che non solo rende omaggio alle radici dello yacht rock, ma dimostra anche come Donohue sia capace di mantenere viva quella tradizione sonora, rielaborandola con maestria e gusto personale.

Nessuna sorpresa, e meno male mi viene da dire, “L.A. Rainbow” è un album che suona fresco, suonato e cantato bene, raffinato e profondamente radicato nelle sue origini. Dane Donohue ha regalato ai suoi fans e ai fans dello Yacht-Rock un lavoro solido, sofisticato e decisamente ispirato. Bentornato!