martedì 29 marzo 2016

REJECTED SCRIPT - M.A. BAKKER


Davanti a una vecchia macchina da scrivere, un uomo appare perplesso. Sopra un tappeto, si vedono fogli appallottolati e un nome scritto: M.A. Bakker, acronimo di Maarten Bakker, che inizialmente non mi diceva molto. Ho fatto una piccola ricerca online e ho scoperto che Bakker è olandese, appassionato di letteratura gotica e umoristica, appassionato di cinema e musica. Suona il basso per una band di Amsterdam chiamata gli Amsterdam Saints. "Rejected Script" è il suo primo album da solista. Per questo progetto, Bakker ha collaborato con Warren Byrd, l'uomo che canta in tutti e dieci i brani dell'album. Bakker ha scritto tutte le canzoni, suona chitarra, basso e tastiere, ed è anche responsabile della produzione, dell'artwork, del mixaggio e dell'editing.

A questo punto, non rimane che ascoltare l'album, e la buona notizia è che c'è molto da apprezzare per gli amanti della musica d'annata. Sembrerebbe che quest'anno sia particolarmente generoso con le uscite nell'ambito del Yacht Rock, quel genere che fonde pop con abbondanti dosi di jazz e soul. Bakker sembra avere studiato attentamente alla "scuola" di Fagen e Vannelli, con insegnanti come Graydon e Colaiuta, e questo si riflette nello stile e nel groove delle canzoni. Se non guardassimo la data sul retro dell'album, che riporta il 2016, potremmo facilmente pensare che si tratti di un prodotto del 1976 o lì vicino.

Prendiamo ad esempio "House of Leaves," un brano che sembrerebbe un outtake da "Kathy Lied," con un perfetto e autentico ritmo funk o, per essere precisi, sembra una canzone che Fagen avrebbe composto in un momento di ispirazione per Bakker. Ma oltre a questa, ci sono molte altre sfumature musicali presenti nel disco. "It's A Dirty Job," per esempio, richiama immediatamente alla mente il migliore Yacht Rock, con un inizio che ricorda "Can't Be Seen," uno dei brani iconici della west coast, cantato da Dane Donohue.

"All We Need" omaggia invece il lato solista di Fagen, in particolare l'album "The Nightfly," e lo fa con rispetto, regalandoci un bellissimo finale con sintetizzatore. In "Fright Night," l'unione tra Steely Dan e Gino Vannelli è evidente, specialmente nel modo in cui il ritornello e il bridge di chitarra sono composti.

La presenza costante di un sottofondo funk, abilmente coordinato dal basso, è una caratteristica distintiva di "Ming Zhao Paradise." In "Jet Set Dream," la chitarra suonata alla Jay Graydon e la batteria con un tocco Colaiutano nel ritornello creano un'atmosfera davvero interessante.

"Goodnight Susanna" è una bellissima ballata, con un affascinante sottofondo di organo e un ritornello accarezzato dai fiati, elegante e sofisticato nel suo svolgersi. In "The Sirens Of Titans," si omaggia la chitarra di Steve Lukhater e quel tipo di canzone pop che improvvisamente si trasforma, fondendo il funk con una leggera inflessione reggae, e con un bellissimo assolo di flauto.

E poi, c'è "Oasis," una ballata che sembra uscire direttamente dal repertorio d'oro di Gino Vannelli. Infine, "This Amazing Hat," che apre l'album ed è uno dei momenti più belli dell'intera raccolta. È una canzone che cambia continuamente ritmo ed atmosfera, attraversando vari generi musicali, dal soul al jazz, al blues, all'r'n'b e al funk, e dimostra quanto il Yacht Rock sia inclassificabile ma affascinante.

In conclusione, auguro a M.A. Bakker di poter realizzare altri album come questo, anche se raggiungere la perfezione sarà sicuramente un compito arduo.

giovedì 24 marzo 2016

JOHAN CRUIJFF


“Tutti gli allenatori parlano di movimento, di correre molto. Io dico che non è necessario correre tanto. Il calcio è uno sport che si gioca col cervello. Devi essere al posto giusto al momento giusto, né troppo presto né troppo tardi"

Ecco, io per una volta almeno, sono stato nel posto giusto al momento giusto. 

Tutte quelle volte che ti ho visto giocare. 

E tutte quelle volte che correvamo dietro ad un pallone immaginando di essere te.

Ciao Johan.

venerdì 18 marzo 2016

SMILE - JUDY ANTON


Avviso: Questo post è dedicato agli appassionati dei sentieri del Yacht Rock, con un grado di devozione quasi patologico. Chi ama questo genere capirà il percorso che sto percorrendo, mentre gli altri potrebbero comunque trovarlo interessante, chissà.

Il personaggio principale è una ragazza americana di nome Judy Anton, che all'età di tredici anni si trasferisce in Giappone con suo padre per motivi di lavoro. Rimane lì per diversi anni e si appassiona così tanto alla musica da registrare due album, pubblicati solo per il mercato giapponese. Uno di questi è "Sunshowers In My Eyes" nel 1979, mentre il focus di oggi è sul secondo, "Smile," pubblicato solo un anno dopo.

L'album contiene otto brani e dura poco più di mezz'ora. Quattro di questi sono cantati in giapponese, il che riflette l'ambiente musicale in cui Judy lavorava, così come il produttore Makoto Matsushita.

Mi permetto una piccola digressione qui: ricordate quanto il sax fosse di moda nella musica pop degli anni '80 e quanto sia caduto in disuso da allora? Beh, per voi fanatici della musica d'annata e del sassofono, questo album è un vero piacere. Inizia con "Living in the City," un brano fantastico in cui Takeshi Itoh suona il sax con grande virtuosismo. Il sax e altri strumenti contribuiscono a creare un sottofondo sonoro che è il culmine delle produzioni mellow-yacht rock dell'epoca.

Judy Anton dimostra la sua abilità nel reinterpretare "The River Must Flow," un capolavoro già reso celebre da Gino Vannelli. Sebbene non raggiunga le vette di Vannelli, riesce comunque a trasmettere delle emozioni. L'album procede con delle ballate, talvolta con sfumature jazzate, ideali per concludere una serata in completo relax. Non cade mai nel banale, e a tratti ricorda l'omonimo album di Amy Holland, uscito anch'esso nel 1980, un'altra gemma di quel periodo.

È inutile dire che Judy Anton è scomparsa dalla scena musicale, e il suo album è diventato presto un oggetto ultra raro, un vero tesoro per noi appassionati dello Yacht Rock. Ringraziamo il potere della rete che ci consente di riscoprire queste piccole gemme.


mercoledì 16 marzo 2016

UNTITLED UNMASTERED - KENDRICK LAMAR


Criticate pure la mia pigrizia, ma da quando è uscito "To Pimp A Butterfly," il capolavoro di Kendrick Lamar, niente mi aveva spinto a scrivere a riguardo. Quindi, accettate questa mia recensione di "Untitled Unmastered" come un modo di rimediare?

Pubblicato inaspettatamente il 3 marzo scorso, questo album del Re di Compton è essenzialmente una raccolta di brani avanzati (non scartati, fate attenzione) dal suo lavoro precedente. Ribadisce con forza la supremazia di Lamar (in comproprietà con D'Angelo, aggiungerei) nel mondo della musica afroamericana. Sì, afroamericana, perché limitare questo artista al rap o all'hip-hop sarebbe ingiusto.

Ci sono otto tracce senza titolo, numerate dall'01 all'08, e una durata complessiva di trentaquattro minuti. Il suo stile richiama più Tupac che Kanye West, e nei testi non troverete le solite storie di sesso e violenza, ma riflessioni su colpa e redenzione, razzismo e sfruttamento dei neri da parte dei bianchi. Si occupa persino di temi come l'immigrazione, cosa che non vediamo fare ai rapper italiani, troppo impegnati a sparare sciocchezze sui social.

E la musica? Lamar esplora la storia della musica afroamericana senza cadere nel revivalismo. Intreccia suggestioni funk e soul, riporta il jazz al centro dell'attenzione, si avventura nella bossa nova, e addirittura fa un accenno a Prince, quasi esortandolo a ritornare al suo antico splendore. Sentite l'introduzione della traccia 01, e poi mi direte.

Con il supporto di musicisti eccezionali, tra cui i grandiosi Kamasi Washington al sax e Thundercat al basso, "Untitled Unmastered" è un altro tassello fondamentale per comprendere l'evoluzione della musica afroamericana.

martedì 15 marzo 2016

WE DELIVER - THE MIAMIS


Gli anni d'oro del CBGB di New York furono un'epoca sfavillante. Per ogni band che riusciva a emergere, ce n'erano molte altre che conobbero solo una gloria fugace, spesso circoscritta al palco del mitico locale newyorchese. Tra queste, c'erano anche i The Miamis, guidati dai fratelli James e Thomas Wynbrandt. Le loro gesta, ora solo immaginabili, sono state raccolte nella recente compilation "We Deliver: The Lost Band Of CBGB Era (1974-1979)," pubblicata dall'etichetta Omnivore Records.

I The Miamis, a differenza delle band punk del CBGB, si specializzavano in melodie e armonie vocali tipiche del power pop. Erano persino ben voluti da personalità del calibro di Debby Harry e Tommy Ramone. Insomma, potevano competere con gruppi come i Cheap Trick e i The Rubinoos. Tuttavia, come spesso accadeva a chi si cimentava in questo genere, i ragazzi si ritrovarono con una gloria effimera, pochi soldi e nessun contratto discografico. Una situazione ideale per fan devoti del genere, come il sottoscritto.

Dell'eredità dei The Miamis restano solo alcune demo e alcune registrazioni dal vivo al CBGB, insieme ai ricordi di coloro che li videro esibirsi. Erano troppo "pop" per i punk, ma troppo "indie" per il pubblico mainstream. Un mix difficile per un artista, e lo sarebbe ancora oggi.

Nei The Miamis c'era l'innocenza delle origini del rock, la musica fatta solo per divertimento, un concetto incomprensibile per l'Italia che ha sempre cercato di seguire tendenze intellettuali.
Oggi, tutti i membri della band svolgono altri lavori, e chissà se provano rimpianto per non essere diventati famosi. Forse si accontentano delle occasionali reunion, suonando di nuovo le canzoni rimaste sepolte per quarant'anni.




venerdì 11 marzo 2016

REFLECTIONS IN REAL TIME - KILO KISH


Forse mia figlia, quattro anni più giovane di Kilo Kish, sarebbe in grado di recensire il suo debutto su lunga distanza meglio di me. Dopo tre EP, l'artista afroamericana ha finalmente pubblicato il suo primo album completo. Vi confesso che quando mi trovo ad ascoltare dischi come questo, una mescolanza di avant r'n'b e hip-hop, in cui il canto sembra essere solo un'idea astratta, faccio fatica a esprimere pensieri coerenti. Ma forse è solo una questione di approccio.

Parlando di Kilo Kish, potrei dire che si tratta delle riflessioni di una ventisettenne laureata in design tessile presso la Fashion Institute of Technology, trasformate in musica. E, per essere onesti, ci sono spunti interessanti qui. A volte, la giovane artista non disdegna di sfiorare la melodia, e ci sono brani che risultano abbastanza orecchiabili. Altri, invece, sono esperimenti che cercano di rompere con il già sentito. Il punto debole, come ho già accennato, è la voce, ma forse nell'opera di Kilo è solo un elemento di secondo piano.

L'album vanta venti canzoni, alcune delle quali sono appena abbozzate. Questo riflesso dei tempi attuali, simile a tanti messaggi inviati alle amiche tramite WhatsApp o Instagram, richiede a noi vecchi cinquantenni di essere aperti e disposti ad accettare l'evoluzione musicale, sia nel bene che nel male. In effetti, nonostante tutto, il diario musicale di Kilo Kish non mi è dispiaciuto. A volte, dischi come questo servono a riportarci con i piedi per terra e a scuotere la presunzione di chi ha vissuto l'età d'oro della musica e giudica con sufficienza. 

Dare un'ascoltata al mondo di Kilo Kish sul vostro smartphone quando tornate a casa non fa male. Se si tratta di un bluff o dell'inizio di una bella storia, lo scopriremo solo vivendo, come ha detto qualcuno.

giovedì 10 marzo 2016

CHANGES - CHARLES BRADLEY

 "Changes" è il titolo del nuovo album di Charles Bradley, ma in termini di cambiamenti, come scopriremo ascoltandolo, ce ne sono davvero pochi, almeno sul fronte musicale. Bradley si muove con maestria nel solco del soul più classico, talvolta sfiorando il funk, il tutto grazie a una voce che richiama in modo impressionante quella del leggendario James Brown.

Il disco si concentra principalmente sulle emotive torch ballad e canzoni che arrivano dritte al cuore dell'ascoltatore. Detto questo, il nuovo lavoro di Bradley non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo a quanto già conoscevamo dell'artista. Questo può essere un merito, ma allo stesso tempo un limite, specialmente per chi, come me, ha ascoltato innumerevoli volte questa tipologia di sonorità.

Non fraintendetemi, l'album è senza dubbio bello, ma bisogna ammettere che non si può vivere eternamente nel passato idealizzato. Il problema è che ho ascoltato molti dischi simili nel corso del tempo. Tuttavia, potrebbe essere un ottimo punto di partenza per chi si avvicina per la prima volta al soul e desidera esplorare le opere dei grandi artisti come James Brown o Al Green per scoprire un mondo musicale ricco di emozioni.

P.S. Il disco verrà pubblicato il primo aprile, e non si tratta di uno scherzo; la title track è una cover di un brano dei Black Sabbath.