giovedì 29 gennaio 2015

CLASSICI: STREETNOISE - JULIE DRISCOLL, BRIAN AUGER & THE TRINITY



Se ad un appassionato medio di rock, in Italia, chiedete quale sia stato il miglior suonatore di organo di sempre, molto probabilmente vi sentirete rispondere in questo ordine di cose: Keith Emerson, Rick Wakeman, Jon Lord. Su Jon Lord siamo tutti d'accordo, sugli altri due decisamente no, o perlomeno se siete anche appassionati dell'arte circense o dei virtuosismi che in tempo passato appartenevano ai cantanti castrati, è probabile che non possiate fare a meno degli arzigogoli dei due figuri citati sopra. E' anche probabile che se provate a fare il nome di Brian Auger ben pochi vi risponderanno in maniera affermativa, magari adducendo il fatto che il nostro era si un bravo suonatore di Hammond, ma che con il rock aveva ben poco a che fare, e che il suo campo era il jazz. Se provate a rigirare la frittata agli appassionati della musica improvvisata costoro vi diranno il contrario, affermando che tutto era fuori che un jazzista.
Ecco, se queste cose le avreste chieste nel 1969 - in Italia eh perché altrove l'album fu giudicato per quell'opera d'arte che è - anno di uscita del capolavoro "Streetnoise", è probabile che le risposte sarebbero state le stesse, profferite con più vigore da entrambe le parti. In realtà Auger ha suonato qualsiasi cosa gli passasse per la testa, che sia stato jazz, r'nb, pop, rock, soul, non ponendosi limiti, e in ognuno dei generi ha tirato fuori il massimo delle proprie intuizioni.

"Streetnoise" quindi. L'album, doppio, quattro canzoni per facciata vinilica, vide la luce quando Auger e i suoi Trinity avevano messo a frutto la collaborazione con la cantante Julie Driscoll (per inciso la migliore cantante bianca Soul di tutti i tempi) in un tempo in cui lo schierarsi nettamente da una parte o dall'altra era prassi comune, sia in politica che in campo musicale. Quindi se eri appassionato di jazz ignoravi i suoi dischi, se eri un rocker duro e puro altrettanto, le vie di mezzo erano poche e mal gliene incorse chi all'epoca provò ad accennare al fatto che "Streetnoise" fosse un capolavoro. Magari c'era chi constatava che ben pochi brani originali vi fossero inseriti, e qui lo possiamo spiegare con le parole di Auger, il quale affermò che essendo il gruppo sempre in giro a suonare, la decisione di inserire cover di brani che proponevano in concerto fu una logica conseguenza, avendo poco tempo per dedicarsi alla scrittura, ma molto probabilmente ci fu chi non capì la portata di quelle versioni, e tanto meno dei brani originali.
Per esempio, avete mai ascoltato una cover di "Light My Fire" assolutamente superiore alla versione originale ? Bene, in questo disco c'é. Come ci sono altrettante cover che superano gli originali, come ad esempio il gospel "Take Me To The Water" di Nina Simone (non crocifiggetemi, per me è così), oppure "Indian Rope Man" di Richie Havens, che anticipa di venti anni l'acid jazz, e una rilettura di "All Blues" di Miles Davis che il nostro dice apprezzò molto. Molto buone anche le versioni di "The Flesh Feilures (Let The Sunshine In) dal musical "Hair" - apprezzeranno per la prima volta chi dei musical vorrebbe farne terra bruciata - e la rilettura di "Save The Country" di Laura Nyro.

Se il disco si fermasse alle cover, potrebbe già bastare a renderlo un capolavoro, fortunatamente però, ascoltando i brani originali, andiamo oltre. L'iniziale "Tropic Of Capricorn" lascia già intendere come sarà il mood del disco, dove Auger pesta sui tasti dell'Hammond in un pezzo che mischia jazz e prog, "From Vauxhall To Lambeth Bridge" è invece la sorpresa dell'album; scritto dalla Driscoll e suonato dalla stessa con la sola chitarra acustica, è un delicato gioiello di folk intimista, da mandare a memoria per i trastullatori contemporanei di strumenti a corda.
Lo strumentale "Ellis Island" ci mostra invece un Auger mai così ispirato, in un brano che fa dell'improvvisazione non tediosa e fine a se stessa la propria ragion d'essere. Se c'è una canzone però che è la cifra dell'album e solo per questo basterebbe per essere ricordato nei secoli a venire, questi non può essere che "Czechoslovakia". Ecco, ridurla a canzone è riduttivo; qui si potrebbe descriverla come una sorta di documento in forma sonora di quella che fu la primavera di Praga nel 1968 e della sciagurata invasione da parte dell'esercito sovietico.
In soli sei minuti, l'Hammond di Auger e la voce della Driscoll (autrice del brano) ci accompagnano dentro le speranze di un popolo, da quando prese forma fino alla fine del sogno.  Commovente fino alle lacrime sono le sensazioni che si provano ascoltando questo pezzo ed emozione è il sostantivo giusto per descrivere questo capolavoro, e lo stupore che ebbi quando lo ascoltai la prima volta si è ripresentato nello stesso modo riascoltandolo adesso, ma sono certo che troverà nuovi adepti in chi considera la musica non soltanto un trastullo o un mero complemento per la suoneria dei telefonini.


domenica 25 gennaio 2015

UNA CANZONE: PRETZEL LOGIC - STEELY DAN



"Pretzel Logic", title track dell'omonimo album, è una delle canzoni che ha contribuito a creare il mito degli Steely Dan. Blues come portante del pezzo, note jazz incastonate nel cerchio dorato del pop, testi oscuri e apparentemente senza un senso compiuto, caratteristica questa che sarà una costante nelle canzoni a venire del duo statunitense.
Il testo della canzone ad una prima lettura sembra che narri di un turista in viaggio verso il sud degli Stati Uniti per andare a vedere un "Minstrel Show" e diventare una stella degli stessi (gli spettacoli dove un bianco si tingeva la faccia di nero per intrattenere i suoi pari) ma addentrandoci nelle liriche si legge che il turista vuole "incontrare un Napoleone solitario" e che si trova in imbarazzo per le scarpe che indossa. Lo stesso Fagen, tanto per ingarbugliare di più le cose ci dice che la canzone parla di viaggi, si, ma di viaggi nel tempo, (i "Minstrel Show" di cui si parla erano morti da tempo, così come Napoleone, e il protagonista del brano vorrebbe ascoltare le canzoni in un fonografo) che in una delle sue canzoni possiamo trovare riferimenti sul putsch di Hitler nella birreria di Monaco di Baviera (potrebbe essere proprio in questa, in questo passo:"I stepped up on the platform ,The man gave me the news He said, You must be joking Son, Where did you get those shoes?" Hitler salì in effetti sul bancone della birreria, sparò un colpo verso il soffitto, fu arrestato e in cella scrisse il Mein Kampf).
Il ritornello della canzone parla poi di "tempi andati via per sempre" e  qui alcuni hanno interpretato questi versi  in senso autobiografico, come se Fagen volesse dirci che la musica degli Steely Dan non fosse ricettiva per l'ascoltatore medio del 1974, anno di uscita del disco. I dubbi di Fagen saranno quelli che portarono la band ad abbandonare la forma concerto alla fine del tour di Pretzel Logic, in quel momento infatti il pubblico era orientato verso le sonorità semplici e lineari dell'hard rock,  del glam, (qui forse c'è la soluzione al rebus delle scarpe fuori moda citate nel testo per cui viene additato il viaggiatore; vi ricordate vero le scarpe che usavano i glammers) che non stare dietro a sonorità meno immediate mutuate dal jazz.
Se invece guardiamo la canzone dal punto di vista storico il testo da adito ad una spiegazione più semplice, ovvero quella di un uomo bianco che vuole essere una stella dei "Minstrel Show", e che lo stesso si lamenta che non è più possibile diventarlo in quanto sono spettacoli non più socialmente accettabili e che appunto "those days are gone forever"
Per quanto mi riguarda sono propenso a credere alla spiegazione di Fagen riguardante i viaggi nel tempo, del resto tutti le canzoni degli Steely Dan sono tutto fuorché semplici da spiegare, in questo caso poi ci viene in soccorso il titolo della canzone: "Pretzel Logic", logica contorta e intrecciata che può essere raffigurata come il pane (il pretzel di cui sopra) di origine tedesca.


martedì 20 gennaio 2015

MODERNISMO: THE MADS






Non ho ricordi sul fatto che in Italia negli anni 60 sia esistito un movimento Mods paragonabile anche in minima parte al corrispettivo inglese - va beh, mi direte che qualcuno ci provò, ad esempio Ricky Shaine che incise il 45 giri "Uno Dei Mods" giusto nel 1965, peccato però che i produttori del nostro, "volpinamente", gli fecero indossare un giubbotto in pelle da Rockers - e dovremo aspettare la fine degli anni 70, più esattamente nel 1979 data di uscita del film "Quadrophenia", perché anche qui da noi si sviluppasse in contemporanea questa volta con il Regno Unito la nuova ondata modernista, conosciuta come "Mod Revival".
Furono Torino e Milano le città simbolo del neonato modernismo italiano e fu nel capoluogo lombardo, nel 1979, che vide la luce una delle prime, se non la prima band Mod italiana: The Mads.
Di quel periodo purtroppo non abbiamo testimonianze su disco nonostante la proposta di un contratto discografico fatta loro nel 1982, rifiutato in quanto prevedeva la sostituzione di due componenti della band con due turnisti cosa che di conseguenza pose fine all'avventura della band.
Chi non ha avuto l'occasione di ascoltarli dal vivo allora, potrà rifarsi le orecchie adesso, in quanto dalla scorsa estate The Mads sono tornati in città con la line-up originale: Marco Pertusati lead vocals e chitarra, Tony Graziani alla chitarra, Luis Bergamaschi al basso e Mauro Fossati alla batteria. Sono tornati dicevamo, e questa volta anche su disco; The Mads hanno infatti inciso un Ep, "Four by The Mads" con quattro brani, quattro cover registrate senza filtri, live, come usava negli anni 60. E il "beat" è la cifra primaria della musica dei The Mads che ritroviamo nel disco - "She Said She Said" dei Beatles, "Keep On Running" dello Spencer Davis Group, "Hey Girl" degli Small Faces e "Till The End Of The Day" dei Kinks - canzoni interpretate senza fronzoli, ruvide e dirette, rispettando lo spirito dell'epoca in cui furono realizzate.
Prendetelo come un antipasto questo e.p., sono certo che i ragazzi ci regaleranno altre suggestioni moderniste e chi sa, la prossima volta magari saranno dei brani vergati dalla loro penna.

Are you ready for The Mads ?

Qui sotto alcuni link:

http://themodsarebackintown.blogspot.it/

https://themads.bandcamp.com/alb

https://soundcloud.com/the-mads-italian-mod

https://www.facebook.com/TheMadsOfficial


domenica 18 gennaio 2015

UNA CANZONE: THE SUN AIN'T GONNA SHINE ANYMORE - THE WALKER BROTHERS


Loneliness is a cloak you wear
A deep shade of blue is always there

The sun ain't gonna shine anymore
The moon ain't gonna rise in the sky
The tears are always clouding your eyes
When you're without love, Baby

L'altra sera stavo guardando un film in tv e ad un certo punto, verso la fine della storia, il personaggio principale della pellicola estrae da un mobiletto un disco, prende il vinile e lo mette sul piatto; a poco a poco si diffondono nell'aria le note di "The Sun Ain't Gonna Shine Anymore" dei Walker Brothers. Fin qui direte una scena come tanto altre, tranne per un particolare: il personaggio è nella stanza della sua compagna, da solo, e nel giro di poche ore la terra verrà spazzata via da un meteorite.
La scelta del regista di inserire un brano così epico, un capolavoro assoluto della musica pop,  è rinforzato dalla citazione nel film di un altro disco pop che ha fatto epoca e che come questo potrebbe essere l'ultimo disco da ascoltare prima che sopraggiunga l'apocalisse: "Pet Sounds" dei Beach Boys.

Ritornando alla nostra canzone, il brano, scritto da Bob Crew e Bob Gaudio fu inciso la prima volta nel 1965 da Frankie Valli ma non ebbe il successo sperato, anzi, fu proprio un flop; si dovrà aspettare la versione dei Walker Brothers perché ottenga il giusto riconoscimento.
Grazie ad un arrangiamento che ricorda il muro del suono di Phil Spector e alla fantastica armonizzazione vocale che ne fecero Scott e John Walker il disco riuscì ad arrivare al numero uno della Uk Singles Chart e al nr. 13 della Us Billboard Top 100.

Sulla canzone - che ricordo è stata usata nel 2010 nel trailer promozionale della serie Tv "The Walking Dead" - vi è un curioso aneddoto: si narra che a metà degli anni 60 il bandito inglese Ronnie Kray, armato con una Mauser da 9mm, stesse andando nel pub Blind Beggar nell'East End di Londra per regolare i conti con il gangster rivale George Cornell. La canzone che girava nel Juke Box del pub era proprio "The Sun Ain't Gonna Shine Anymore" nella versione dei Walker Brothers e mentre Kray sparava per uccidere Cornell un proiettile colpì il juke box facendone incantare il disco che come un mantra ripeteva il ritornello "The Sun Ain't Gonna Shine Anymore, Anymore, Anymore...." mentre lì vicino Cornell tirava le cuoia.

Da ricordare anche la versione di Cher nel 1995, citata, guarda un po', in un episodio di X-Files.
Un capolavoro, dicevamo, e se esiste una canzone che descrive bene la sensazione che uno ha quando viene abbandonato dalla propria compagna/o, direi che questa non la batte nessuno.

martedì 13 gennaio 2015

ITALIANI: PAOLO "APOLLO" NEGRI - HELLO WORLD


Già segnalato come uno dei migliori album di musica indipendente prodotti in Italia nell'anno appena trascorso, è giusto soffermarsi un po' di più sull'ultima fatica del mago italiano dell'organo Hammond a nome Paolo Apollo Negri. "Hello World", quarto album del tastierista, è stato per me un godimento continuo; se nei lavori precedenti il funk ed il soul erano le principali fonti di ispirazione, questa volta il posto d'onore se lo prendono il jazz-rock e quel tipo di fusion che girava nell'aere negli anni 70, e per un appassionato di quei suoni come il sottoscritto è stata oltre che una bella sorpresa, una conferma delle capacità compositive dell'artista italiano. Se conoscete appena un po' gente come George Duke gli Azymuth o i Weather Report fino ad arrivare ai nostrani Perigeo vi farete subito un'idea di quello che c'è all'interno di "Hello World": coadiuvato da una band di studio con al basso Edoardo Giovannelli, Mario Percudani alla chitarra e Paolo Botteschi alla batteria, il nostro viaggia a cento all'ora all'interno dei generi succitati - grandi assoli e un groove che ti prende per mano e ti accompagna fino all'ultima nota degli otto brani presenti. Se come detto il jazz-rock la fa da padrone, quà e là rispunta il funk, questa volta in ottica Sly Stone, grazie agli unici due pezzi cantati: "Teenie Tiny Cameras" con alla voce Bob Harris e "Gumbo Funk" con Noel Mc Coy.
"Hello World" ha il pregio di essere un album dal respiro internazionale, un disco che va aldilà delle solite beghe da cortile di cui è intrisa la produzione musicale di casa nostra, ma del resto tutto il mondo di Paolo "Apollo" Negri è lì a dimostrarlo: parla con la musica, e che musica, e ogni nuovo disco è un tassello che va a rinnovare l'eccellenza italiana delle sette note.



mercoledì 7 gennaio 2015

LOST AND FOUND: DON BROWN - I CAN'T SAY NO


Come costruire un post quando del personaggio che vuoi recensire non esiste alcuna voce su wikipedia, non esiste niente di lui nemmeno sui libri specializzati del genere, le riviste dell'epoca non se lo sono filato e sei venuto a sapere solo per caso che è di Seattle? Intanto si può parlare della copertina del disco oggetto della recensione; ma anche essa non da adito a voli pindarici. Il soggetto ritratto colà non stimola la fantasia, sembra il ritratto di un tuo cugino che abita in un luogo remoto e che vai a trovare o quando muore qualche parente, o per qualche matrimonio. con lo scatto preso in un momento di tedio generale. Se però ci fermassimo all'apparenza e a queste frasi scontate ci perderemmo un disco davvero sconosciuto uscito nel 1977, ma che merita un ascolto convinto e nasconde più di una sorpresa. Se Don Brown avesse avuto almeno un dieci per cento del sex appeal che aveva Gino Vannelli magari adesso qualcuno si sarebbe ricordato di lui; si perché l'ambito in cui si muove il disco è quel genere jazz non jazz, pop sofisticato incrociato con il genere più nobile, cosa di cui il Vannelli era un maestro. Va detto subito, a scanso di equivoci che in "I can't Say No" non si raggiungono quelle vette, e solo a tratti lo ricorda. Per amor di precisione diciamo che Don Brown fa riaffiorare alla mente, sia come voce che come mood un'altro eroe del jazz-pop, quel Nick Decaro autore di uno dei dischi più belli del genere: "Italian Graffiti" di tre anni precedente.
Dietro quell'aria da bonaccione Don Brown aveva ben compreso la lezione dei maestri del genere e la dimostrazione è tutta in questo disco, che lontano da uno scopiazzamento sterile dimostra invece molta personalità, con al vertice il terzo brano dell'album: "Hug On A Thrill" è un concentrato di groove in una cornice pigra e indolente, come trovarsi tra amici già sbronzi su di una spiaggia al tramonto. Riuscita anche la cover di "Over The Rainbow", molto bella, si prosegue poi con canzoni che anche quando sono incasellate in una forma ben precisa, hanno quella zampata fatta di bridge strumentali e di quei piccoli particolari sonori (uno strumento, un cambio di tonalità e di ritmo anche solo per poche battute, l'uso della voce e dei cori) che soltanto questo genere ha il potere di evocare e ne sono il tratto distintivo.
Il disco lo potete ascoltare su Spotify e acquistare in Cd su HMV Japan.

lunedì 5 gennaio 2015

IL LUNGO ADDIO: PINO DANIELE 1955 - 2015




Ve lo dico in tutta sincerità: ne ho abbastanza di pubblicare post di musicisti che ci lasciano, l'anno appena passato è stata un'ecatombe, il 2015 inizia nella maniera peggiore.

Pino Daniele è stato l'artista che ha reso accessibile alla massa la rivoluzione del sound napoletano iniziata da James Senese insieme ai Napoli Centrale, una fusione di jazz, soul e funk, ingentilite dal blues e dal pop di qualità che il musicista napoletano dal 1979 al 1982 con una serie di album uno più bello dell'altro riuscì a creare.

Ed è di quel periodo il ricordo più caro che ho di Pino Daniele, quando la ricerca sonora era abbinata ad un linguaggio comprensibile per tutti, e finalmente in Italia veniva alla luce un mondo di musica fino ad allora conosciuto da pochi appassionati. Ecco, Pino Daniele per me è stato questo, di quello che ha fatto dopo, diciamo da "Musicante" in poi,  molto spesso è stata maniera, sempre però un gradino sopra agli altri cantanti del mainstream italiano, e quel tocco magico che aveva contraddistinto gli album precedenti si era ormai perso.

Lo ricordo così, con una delle canzoni a me più care.