giovedì 31 maggio 2012

FUNK MASSICCIO DA BRIGHTON: THE IMPELLERS


Se dici Brighton pensi subito agli scontri fra Mods e Rockers negli anni 60, oppure, se sei appassionato di football, ma di quelli seri, sicuramente ti potranno interessare le gesta del Brighton and Hove Albion FC, non memorabile squadra di Championship inglese, la nostra serie B, che ha vinto il suo unico trofeo nel 1910. A me invece Brighton fa venire in mente Ben Sherman, stilista di moda cui devo buona parte del mio guardaroba, camicie con il caratteristico "botton down", ovvero il terzo bottone posto sul retro del colletto, polo, chinos e giubbino "Harrington". L'altra cosa per cui Brighton merita di essere ricordata e attinente al blog, è la band dei "The Impellers", dieci elementi, con alla voce solista la brava Clair Witcher - potenza allo stato puro la bimba, ascoltare "The Knock Knock" - in cui ha attecchito il morbo del funk. "The Impellers" hanno da poco inciso il loro secondo album, "This is not a drill", per l'etichetta tedesca Legere Recordings, specializzata in sonorità black e pur avendo come faro il funk bello massiccio di metà seventies, si possono rimarcare diverse influenze in alcuni dei brani componenti il disco, come ad esempio l'afrobeat di "Pon lo Afuera" fino alle vibe latin di "Do What I Wanna Do". In tutti i dodici pezzi del disco risalta la notevole professionalità e bravura del combo, mai dispersa in sterili virtuosismi, ma messa al servizio per la riuscita del disco. Per il sottoscritto una delle band più convincenti e rabbiose di questo 2012, dalla potenza veramente devastante. Chiaramente se siete alla ricerca dell'ultima novità e dell'originalità ad ogni costo probabilmente "The Impellers" non fanno per voi, se invece ritenete che la buona musica di sostanza non ha bisogno di hype alla moda e amate il funk sporco e cattivo e i Jb's sono i vostri profeti, fiondatevi su questo gruppo, non ve ne pentirete.
Keep on dancin', brothers and sisters.



Qui la preview mix del nuovo album

mercoledì 30 maggio 2012

DIZZY IN FUNK


La recente uscita di una bella raccolta dedicata ai musicisti che hanno pubblicato sulle label Perception e Today Records, mi fornisce l'occasione di parlare di un bel disco uscito nel 1970 ad opera di Dizzy Gillespie, "The Real Thing". Il disco vede il buon Dizzy flirtare con dei micidiali groove funk, lontano anni luce dalle classiche sonorità bop di cui lui fu uno dei fondatori, contornato da una band che vedeva nelle sue fila musicisti come James Moody al sax, Eric Gayle alla chitarra e Michael Longo al piano. Chiamatelo jazz-funk, fusion o come vi pare, quel che è certo è la notevole apertura mentale di Dizzy verso la musica che girava per le strade in quei giorni e al pari di un Miles Davis e di un Herbie Hancock, seppe indicare la via giusta a tutti quei jazzisti che non volevano rimanere imbrigliati in una formula tradizionale a scapito della propria creatività. Poi il bello della musica jazz e nera in generale è proprio questo: riuscire a fiutare per primi i suoni che arrivano dalla strada fino a creare ibridazioni che prima o poi vi ritroverete nei brani da "cassetta".
Il disco in questione poi ha una serie di pezzi "killer" che ancora oggi sorprendono per la loro semplicità e genialità.
Make it funky, man!



sabato 26 maggio 2012

ROUND MIDNIGHT: IL "CAPOLINEA" DI MILANO


Se chiedete ad uno straniero quali sono le eccellenze italiane nel mondo, facile che vi risponda così: le auto, la moda e la cucina. Se poi gli chiedete se conosce qualcosa della musica italiana, sicuramente vi risponderà Bocelli e Pavarotti. Probabile che si stampi in faccia un sorrisino ironico se gli domandate qualcosa sul rock tricolore. Sicuramente i più avveduti vi risponderanno invece che il jazz è un'altra nostra eccellenza. Un'eccellenza fatta di musicisti che durante gli anni sono riusciti a diventare dei punti di riferimento, tali da farsi meritare il rispetto dei maestri del genere.

Non solo musicisti però, ma anche una rete di locali dove si spargevano le note e si creava la storia del jazz in Italia; un nome su tutti, il "Capolinea" di Milano, storico locale sul naviglio grande, che chi ha avuto la fortuna di frequentarlo si è trovato davanti alla crema della produzione internazionale ed italiana. Durante la vita del locale, inaugurato nel 1968 da Giorgio Vanni, ex batterista toscano (e qui mi arriva un moto d'orgoglio corregionale) e fino alla sua chiusura nel 1999, sono passati da lì gente come Chet Baker, Steve Lacy, Dizzy Gillespie, Chick Corea, Art Blakey, Gerry Mulligan, Joe Venuti, Vinnie Colaiuta, Tony Scott, Charlie Haden, Archie Shepp, Bill Evans - che colà gelò gli amici dicendo di avere soltanto due mesi di vita - oltre ai nostri Enrico Rava, Franco Cerri, Girogio Gaslini e Tullio De Piscopo, tanto per citarne alcuni.

Insomma, il Capolinea non aveva niente da invidiare al Blue Note di New York, anzi. Ma il jazz in Italia non è stato fatto solo dai musicisti e dai locali, anche le canzoni hanno avuto la loro parte di merito, una canzone in particolare: "Estate". Se c'è un classico della canzone italiana diventato uno standard suonato da tutti o quasi, il brano di Bruno Martino è uno di questi: un esempio di eleganza sposata alla melodia italiana, in breve quello in cui siamo dei maestri e che ci viene riconosciuto all'estero. E arrivati alla fine del post non ci resta che ascoltarla: registrata live proprio al Capolinea di Milano, Chet Baker accompagnato da musicisti italiani, ci regala una delle versioni più struggenti ed emozionanti di "Estate".

venerdì 25 maggio 2012

SICURO, E' FUNK (E DI QUELLO BUONO)


Nel fondamentale disco di Sly and the Family Stone, "There's a Riot Going On", la traccia omonima era inesistente, ovvero era scritta sul tondino del vinile ma non c'era, mai incisa e forse mai pensata, perché come motivato dello stesso Sly, "sentii che non ci dovrebbero essere mai disordini". A distanza di quarantuno anni, il gruppo californiano dei Monophonics, usciti per la label Ubiquity Records lo scorso 15 Maggio con l'album "In your brain", provano a dare voce e musica a quella risposta che Sly Stone dette alla domanda posta a titolo dell'album capolavoro di Marvin Gaye, "What's going on". Da allora e come allora, pur con altri motivi, i tempi per una rivolta sembrano essere tornati d'attualità, ma qui mi fermo e non vado oltre, per la politica esistono blog e bloggers migliori del sottoscritto.
I Monophonics sono attivi dal 2005, questo è il loro terzo lavoro, dopo l'uscita nel 2007 di "Playin' and Simple" e di "Into the Infrasound" nel 2010. Il suono dei Monophonics è debitore a quello che veniva chiamato "black rock", ovvero funk mischiato con la psichedelia più grezza, che ebbe in Sly Stone, nei Mandrill, nei Funkadelic di George Clinton e nei War di Eric Burdon i loro massimi cantori.
E per restare fedeli al suono dell'epoca, i Monophonics hanno utilizzato un registratore ad 8 piste, usando microfoni vintage e infarcendo i suoni di riverberi e delay a manetta. Ora, a prescindere dalla filologia della quale mi interessa il giusto, il disco dei Monophonics suona fresco e riesce ad essere convincente nelle sue canzoni, unite dal filo conduttore del funk ma al tempo stesso con delle variazioni di forma al loro interno - si va dallo street funk di "All together", alle suggestioni soul cinematiche di "Mirage", al funk psichedelico della title track - che lo rendono di fatto uno dei più convincenti lavori di questo 2012.
Make it funky !



martedì 22 maggio 2012

IL LUNGO ADDIO: ROBIN GIBB, 1949-2012


Sulla morte di Robin Gibb in questi giorni è stato scritto molto e molto a sproposito: ad esempio la sua dipartita è stata messa in correlazione con la scomparsa di Donna Summer, come se i Bee Gees avessero scritto e cantato soltanto nel periodo della disco music, non ricordando invece i numerosi successi avuti negli anni sessanta, con canzoni memorabili nell'ambito della musica popular.
Restando sugli anni '70 e sulle sonorità che interessano al sottoscritto, voglio ricordare che i Bee Gees scrissero brani dance o perlomeno dall'atmosfera pop-soul ben prima dell'exploit di Saturday Night Fever: "You should be dancing", "Nights on Broadway" e "Fanny" furono i brani che videro la sterzata del gruppo dal pop degli esordi a suoni più marcatamente black, costruiti però sui loro caratteristici intrecci vocali e sui loro ritornelli killer. Il miglior modo per ricordare Robin Gibb è riascoltare la "divina" Candi Staton nella cover di "Nights on Broadway", il mio brano preferito della band e una delle migliori versioni di un brano dei fratelli Gibb.
So long, Robin.

domenica 20 maggio 2012

SUNDAY MORNING MUSIC: BOBBY CALDWELL


Autore raffinatissimo, che spazia dal soul al jazz alla fusion, Bobby Caldwell incise nel 1982 uno dei suoi album migliori, "Carry on" da cui è tratto il brano di oggi, "Sunny Hills". Caldwell iniziò la sua carriera come turnista lavorando con Johnny Winter e come membro di due gruppi, gli Armageddon e i Captain Beyond, per poi intraprendere nel 1978 la carriera solista. "Carry On" è il terzo album che arriva dopo il suo omonimo masterpiece del 1978 e segue "Cat in the hat" del 1980. Album che rispetto agli altri pecca in spontaneità, essendo i brani costruiti ed arrangiati in modo impeccabile, ma sicuramente quello che non difetta è un generale godimento per tutta la durata del disco. Da rimarcare è che pur trovandoci in ambito di musica da intrattenimento di gran classe, l'ascoltare questa miscela di musica di diversi generi così ben assemblati ha ben pochi eguali in altri autori e rende Bobby Caldwell un artista tra i più originali del panorama musicale, per i pochi che lo conoscono, purtroppo.

sabato 19 maggio 2012

ROUND MIDNIGHT: GERRY MULLIGAN QUARTET, AS CATCH CAN


Di questo disco ho un ricordo particolare: trattasi del primo album di jazz da me acquistato dopo intensivo ascolto di "The Nightfly" di Donald Fagen. L'omonima canzone, dove si narravano le nottate del DJ Lester che trasmetteva "jazz and conversation" dalla "indipendent station WJAZ", mi convinse a fare il salto definitivo nel mondo del jazz, sfiorato mille volte in tutte le sue declinazioni e fusioni. L'album di Gerry Mulligan, "What is there to say?" del 1958 fu così il primo di una lunga serie che continua ancora oggi. Il quartetto di Mulligan era atipico dagli altri del periodo perché fu il primo a non contemplare il pianoforte, sostituito da tromba e sax baritono in un continuo gioco di armonie ed incroci tali da non far sentire la mancanza di uno strumento fino ad allora indispensabile per ogni formazione jazz. Nel quartetto originale la tromba era affidata a Chet Baker, ma tra litigate e scazzi vari tra i due, il connubio venne interrotto anche a causa dell'arresto e della detenzione di tre mesi per uso di sostanze stupefacenti di Gerry Mulligan e per il sorprendente affermarsi di Baker come cantante. Il quartetto che inciderà uno dei dischi più importanti per la musica jazz vede Art Farmer alla tromba, Bill Crow al basso, Dave Bailey alla batteria oltre chiaramente Mulligan al sax baritono. Il brano che ho scelto dall'album non è conosciuto come ad esempio "My funny Valentine", lì contenuto, ma, cosa principale, è scritto dal genio di Mulligan ed è esplicativo di quella che fu la scuola "cool jazz" di cui il musicista newyorchese fu uno dei padri fondatori.
Buona notte e buon ascolto.

venerdì 18 maggio 2012

IL LUNGO ADDIO: DONNA SUMMER, 1948 - 2012


Con la scomparsa di Donna Summer non se n'è andata soltanto una diva della disco music, se n'è andata un'idea di musica nata nella seconda metà degli anni '70, ideata dai bianchi per rendere digeribile alle masse la musica funk e divenuta ben presto un'equivoco per molti che di musica black ne masticavano poco. Più di una volta ho sentito associare la disco con la musica nera tout court, dando luogo ad un pregiudizio duro a morire. Con la scomparsa di Donna Summer se n'è andata via una parte della mia giovinezza, i ricordi legati ad un mondo che sembra lontano un secolo. Donna Summer te la ritrovavi in ogni dove, era il tormento e l'estasi di ogni adolescente, riuscì a liberarsi dalla disco registrando album di gospel, rock ed r'n'b, con buon successo, ma la mia Donna Summer è inequivocabilmente quella della disco e non voglio qui farne un rivalutazione post-mortem sulle proprie capacità vocali, non me ne frega proprio niente e non ne ha bisogno. Voglio celebrare un'epoca, una musica come una "via di fuga" durata un battito di ciglia. E ringraziare Donna Summer di essere stata parte di tutto questo. E riascoltarla ancora, senza puzza al naso.
So long, Donna.


mercoledì 16 maggio 2012

DIVA'S: PHYLLIS HYMAN


Parte oggi una nuova rubrica dedicata alle divine della musica soul: per intendersi, ed in linea con il blog, qui non vengono contemplate presunte dive alla Mariah Carey, forse, se mi va, accennerò alle dive più conosciute e meritevoli di questo titolo, Aretha e Diana, tanto per fare due esempi. Mi preme invece ricordare quelle "dive" che lo furono per un piccolo attimo nel tempo, tanto fuggente quanto indelebile negli anni a venire per chi è appassionato di musica black.

La storia di oggi non ha un lieto fine e comincia dall'ultimo atto, con il suicidio dell'artista, il 30 Giugno del 1995. L'inizio della parabola artistica di Phyllis Hyman però partì con ben altri presupposti e sin dal primo disco tutto lasciava presagire per un finale diverso. Bella, sofisticata, una vocalità intensa e profonda, Phyllis Hyman inizierà la carriera di cantante registrando il suo primo omonimo album nel 1977  per la Budda Records, disco caratterizzato già da canzoni che resteranno nella memoria dei fans per lungo tempo: "Loving you, losing you", "I don't wanna lose you" e la splendida "No one can love you more". La firma con l'etichetta Arista Records l'anno successivo fu paradossalmente l'inizio dei problemi personali della cantante afroamericana: nonostante i notevoli mezzi della casa discografica, e la buona accoglienza data a  "You know to love me" album del 1979 e "Can't we fall in love again" uscito nel 1981, questa parve non rendersi conto della grandezza della Hyman, non supportandola a dovere e preferendo puntare massicciamente su Whitney Houston,  arrivando a boicottarla con finte promesse, non ultima quella di farla diventare la nuova Diana Ross.

Forse anche per questo, Phyllis Hyman, che nel frattempò affiancò la sua carriera di cantante a quella di attrice nei musical di Broadway e nel cinema, fino a lavorare come modella, precipitò nella spirale maledetta della depressione, combattendo contro l'alcolismo e l'aumento di peso. La morte a distanza di un mese l'uno dall'altro della madre e della nonna, nel 1993, fu forse il colpo finale che stroncò definitivamente il morale della cantante.

Tra tutti i dischi da ricordare di Phyllis Hyman mi preme sottolineare l'album del 1986, "Living all alone", registrato per la Philadelphia International dopo la rescissione del contratto con l'Arista Records: è stato il mio primo incontro ravvicinato con l'arte di Phyllis, un disco riconosciuto da tutti come uno dei più belli ed ispirati nel campo della musica soul virata al femminile, con dentro quelle ballate soul che furono l'eccellenza e la distinzione dell'arte di Phyllis.
"Prime of my life" del 1991 fu il canto del cigno dell'artista, un disco registrato tra un esaurimento nervoso e l'altro, con un brano "Don't wanna change the world", accolto entusiasticamente dalle radio e dai clubs ed unico numero uno nell'r'n'b chart di Billboard nella carriera della cantante. Quel che ci resta oggi di Phyllis Hyman sono una manciata di bei dischi da riscoprire e il ricordo nostalgico di quanti ne amarono l'arte e la bellezza.

"No one can love you more", dal primo album, scritta dal grande Skip Scaroborough


La struggente "Old Friend", dall'album del 1986 "Livin' all alone"


Live al David Letterman Show con "What you won't do for love" cover
di un brano di Bobby Caldwell

domenica 13 maggio 2012

SUNDAY MORNING MUSIC: STEVE KIPNER


Ecco un'altro dei "beautiful loser" della musica californiana. Steve Kipner al pari di altri artisti del genere pop west coast ha all'attivo un solo album, "Clock the walls down" uscito nel 1979, coprodotto insieme ad un Jay Graydon alle prime armi ma con il quale riuscirà a tirar fuori dal cilindro uno dei primi lavori di riferimento per tutto il genere. La bellezza delle melodie, dei suoni e degli arrangiamenti vanno a sopperire ad una non bellissima vocalità da parte di Kipner, ma come detto, le trame sonore create da Graydon e Tom Seufert - l'altro coproduttore dell'album - riescono a fare di questo lavoro una gradevolissima esperienza di ascolto. Altro merito è quello di essere riusciti a creare delle canzoni che non sono di impatto immediato ma che necessitano di ulteriori ascolti per conquistarti piano piano. Le mie preferite sono "Cryin' out for love" e la stupenda title track, dove possiamo ammirare la maestria di Graydon alla chitarra. Una curiosità: Steve Kipner ha collaborato con Alan Sorrenti per i suoi album americani, ed è stato compositore per altri artisti del genere tra cui gli Airplay, i Chicago - sua è "Hard abit to break" - Al Jarreau e George Benson.
Ma i cervelloni che si arrogano il diritto di scrivere la storia del rock, hanno mai ascoltato una chitarra come quella che Graydon esibisce in questo disco?

Questa la grandiosa line-up che ha realizzato il disco:

Drums: Jeff Porcaro, Mike Lingle

Guitars: Jay Graydon, Larry Carlton, Dean Parks, Steve Lukather, Tom Seufert

Bass: David Hungate, Kenny Lee Lewis

Piano: Greg Mathieson, Geoffrey Lieb, David Foster

Keyboards: Michael Omartian, David Foster

Synthesizers: Jay Graydon, Geoffrey Leib, Robbie Robinson

Percussion: Victor Feldman

Sax: Don Roberts

Horns: Jerry Hey, Gary Grant, Bill Reichenbach

Background Vocals: Peter Beckett, J.C. Crowley, Carmen Twillie, Venette Gloud, Bill Champlin, Tom Kelly, Bobby Kimball, Tom Seufert





sabato 12 maggio 2012

'ROUND MIDNIGHT: PAUL DESMOND, TAKE FIVE


Ma anche il Dave Brubeck Quartet- Dave Brubeck al piano, Paul Desmond al sax contralto, Gene Wright al contrabasso e Joe Morello alla batteria - e l'album "Time Out" del 1959, ovvero la storia del jazz o meglio, la storia della musica. Take Five però fu scritto da Paul Desmond, sassofonista del quartetto, il brano fu così chiamato, pare, perché sviluppato in metrica di 5/4 e fu anche uno dei primi brani in cui la batteria non ebbe la funzione di mero accompagnamento come accadeva allora, ma divenne parte integrante nello sviluppo del brano. Take Five è il classico pezzo che conoscono anche chi del jazz ne sa poco o niente, è uno degli standard più suonati di sempre ed ebbe anche un buon riscontro nella top 100 di Billboard. Paul Desmond scrisse il brano durante la realizzazione di Time Out, dove il nostro iniziò ad improvvisare sul ritmo, appunto in 5/4, ideato dal batterista Joe Morello, e Brubeck ne fu tanto entusiasta da chiedere a Desmond di unire le parti improvvisate in un unico corpus, creando così il brano come lo conosciamo. Una piccola curiosità: Paul Desmond viene citato nel brano di Michael Franks "Rainy Night in Tokyo" estratto dall'album "Passion Fruit", di cui ho parlato domenica scorsa e che mi ha fatto venire la voglia di inaugurare questo piccolo spazio dedicato al jazz, dove ogni notte tra il venerdì ed il sabato, intorno a mezzanotte appunto, ci ritroveremo ad ascoltare della buona musica. Le sigarette e l'alcool mettetecele voi.

giovedì 10 maggio 2012

QUEL SOUL CHE ARRIVA DALL'AUSTRALIA: DOJO CUTS FEAT ROXIE RAY


Buone nuove dall'Australia per quanto riguarda la nostra musica preferita. Poco tempo fa su questo blog ebbi modo di parlare di Clairy Brown and The Bangin' Rackettes, band proveniente da Melbourne, dedita ad un ruvido r'n'b, oggi è la volta dei Dojo Cuts, combo che arriva da Sidney, con alla voce la brava e bella Roxie Ray. Hanno fatto uscire da poco il loro secondo album, "Take from me", per l'ormai imprescindibile label italiana, per chi ama soul e funk, Record Kicks e posso dire che anche questa volta hanno colto nel segno. Se in altri artisti dell'etichetta, vedi ad es. Nick Pride and The Pimptones o i Third Coast King ci troviamo di fronte ad una proposta musicale orientata verso il funk nudo e crudo, in questo album viene privilegiato un approccio alla materia più morbido, abbiamo infatti dei brani quasi tutti giocati in chiave mid-tempo, molto raffinati e dalle sonorità pulite e anche laddove viene affondato il coltello nel burro, vedi la cover di un brano di James Brown "What I have To do" , rimane sempre in primo piano la grande pulizia formale e la precisione dei fiati e della sezione ritmica. In ultimo mi preme sottolineare la performance canora di Roxie Ray; la ragazza ha una vocalità limpida e con personalità da vendere, che non sopraffà mai i musicisti della band. Insomma, ancora una volta la label milanese ha fatto centro e si dimostra una garanzia per chi si sollazza nell'ascolto di questo genere. Grandi grooves e tanto buon gusto. Da acquistare a scatola chiusa.

martedì 8 maggio 2012

AWB vs.CHAKA KHAN: WHATCHA GONNA DO FOR ME


Quando l'Average White Band incise "Whatcha Gonna Do For Me" il gruppo scozzese aveva già attraversato l'atlantico per trasferirsi nella terra del funk, gli States. In crisi d'identità in patria, dove la loro musica rimase come incompresa - figurarsi se nel bel mezzo dei seventies nel Regno Unito la massa delle persone si filava il funk - non è che negli states le cose andassero per il meglio - immaginatevi i funkster neri cosa avranno pensato: "ehi, chi cazzo sono questi visi pallidi che ci imitano cosi bene?" Una cosa però è certa e scolpita nel marmo; l'AWB incise un disco "Shine", prodotto dal genio di David Foster, che seppur scostandosi dal funk puro degli esordi è un caposaldo del pop'n'soul, basta ascoltare i primi quattro brani dell'album - cibo per artisti in cerca di gloria - per capirlo. Il brano della sfida di oggi ne è un esempio: scritto da Ned Doheny e Hamish Stuart è una canzone che da lustro imperituro alla carriera di un artista. Perfetto nella versione originale, diventa un must imperdibile ed indispensabile per i cultori del bello con la voce di Chaka Khan. Verdetto pari, per me.



domenica 6 maggio 2012

SUNDAY MORNING MUSIC: MICHAEL FRANKS


Michael Franks è considerato, da chi lo ascolta superficialmente, il classico artista buono da ascoltare in situazioni intime, insomma, musica buona per scopare. A parte il fatto che già questo basta a farmelo piacere, i pochi che lo hanno ascoltato più attentamente scopriranno un'artista raffinato e sensibile, che parla si di amore e passione nei suoi dischi, ma dal songwriting che esclude le banalità in cui cadono molti autori. Michael Franks ha scritto lavori migliori di questo, ma "Passion Fruit" con quelle sue canzoni che si muovono sul confine del jazz, tra pop e bossa, ha dentro quel mood che lo rende subito riconoscibile, piccoli bozzetti come quei quadri di artisti sconosciuti che trovi nei mercatini, come una donna non bella ma che ha dentro quel non so cosa che ti fa sangue. Prendete i due brani di oggi: "When Sly Calls", dove si parla di una telefonata inaspettata da parte di un amico che ti piace ancora e con cui hai paura a parlare e "Alone at night", una canzone dal testo sottile su come la mancanza di un amore sia come una "dieta sfiancante in un'oasi di pace e tranquillità", magari spesa davanti ad un televisore. Insomma, canzoni come piccole poesie visive, arrendetevi a loro ed abbiate il piacere di farvele scivolare sotto le lenzuola.



giovedì 3 maggio 2012

L'ORGOGLIO DI SCOZIA


Ve la immaginate una band di scozzesi bianchi dediti al funk nel Regno Unito degli anni '70?
Strano a dirsi, in un epoca in cui il glam prima e il punk dopo dettavano legge, eppure la Average White Band fu una delle più belle realtà della musica funk di quegli anni e ancora oggi è rispettata ed amata. E sinceramente, quando arrivarono al numero uno, dicasi UNO, nella hot 100 di Billboard con il loro primo singolo "Pick up the pieces", colsero di sorpresa buona parte del pubblico e della critica, ma quel brano, suonato da sei bianchi, fu la prova vivente dell'universalità e del fascino del funk. Un groove strumentale caratterizzato da un assolo "maligno" di sax in salsa be-bop ed una chitarra ispirata dai Jb's era quanto di più fresco e familiare si potesse ascoltare in ambito soul in quei giorni. Chi avesse ascoltato quel brano senza sapere che dietro a quelli strumenti c'erano dei ragazzi bianchi lentigginosi, avrebbe giurato che la crew fosse formata da un gruppo di neri assatanati. Ma il bello del funk è quello di oltrepassare le barriere di razza e di nazionalità, ma sopratutto, chi di quella musica ne è sincero fan, è quello di non cadere in facili e sterili pregiudizi.
"Era la filosofia del funk, davvero", ha dichiarato uno dei membri fondatore della band Alan Gorrie nel 1994. "Eravamo una soul band, sapevamo suonare roba be-bop, erano presenti diverse influenze, ma il principale punto d'incontro era rappresentato dal fatto che essenzialmente eravamo una funk band". Leggenda pura, avremo modo di riparlarne, adesso gustiamoci la band dal vivo a Montreaux nel 1977.

martedì 1 maggio 2012

ERIKAH BADU AL CONCERTO DEL PRIMO MAGGIO 2001


Sicuramente il miglior live act di sempre del concerto romano del Primo Maggio. Entrò sul palco accolta da un generale scetticismo, del resto il cartellone di quell'anno, 2001, prevedeva Pelù, Britti, Mannoia, 99 Posse - ci siamo capiti no ? - e dette una lezione di stile e di bravura a tutta la compagnia cantante. Peccato che anche allora ci fu chi non capì 'na mazza sull'arte della nostra, leggete cosa scrisse il Corriere della Sera: "L' ETEREA BADU - La regina del new soul è dispersiva e troppo «raffinata» per una piazza così dilatata. Erykah Badu col suo mega-turbante si fa precedere da dieci minuti di intermezzo strumentale in cui le coriste ripetono il suo cognome. La divina si accende una sigarillo, dice ciao. A un certo punto grida alla folla un po' spaesata di «urlare»." Un raffinato ed esplicativo esempio di critica musicale, oserei dire.
Per fortuna i più avveduti tra gli spettatori, resisi conto che non avevano davanti una peracottara "dispersiva e troppo raffinata", tributarono il giusto omaggio all'artista americana e chissà, forse a qualcuno, tra un Pelù ed un Britti, si accese la fiammella del soul.
EDIT: Mi sono accorto che il post è venuto simile ad un altro scritto lo scorso anno. Va beh, il mio grado di bollitura avanza, ma ormai è fatto, e non ho voglia di cambiarlo.