martedì 19 gennaio 2016

IL LUNGO ADDIO: GLENN FREY (1948 - 2016)



Oggi voglio parlare di canzoni che ho ascoltato per la prima volta alla radio durante i miei anni di scuola media. Ricordo una sera in particolare, mentre ascoltavo il programma serale "Supersonic" sulle frequenze Rai e mi imbattevo in "One of These Nights." La differenza tra quei giorni lontani e adesso è che, nonostante abbia scoperto molta altra musica nel corso degli anni, la musica degli Eagles e di Glenn Frey non mi ha mai abbandonato, anzi, è rimasta parte di me.

La musica di Glenn Frey e degli Eagles è come un'immaginaria California che non solo entrava nella mia cameretta di periferia a Firenze, ma anche nell'anima, lasciandomi sensazioni che mi hanno accompagnato nel corso degli anni. Non importa se molti considerano gli Eagles e la loro musica come qualcosa di superfluo, io ci sono cresciuto e quei dischi rappresentano dei bei ricordi condivisi con gli amici di allora. Spesso, quei dischi sono stati un punto di partenza per esplorare suoni più profondi e autentici dell'America, diversi da quelli raccontati dagli Eagles.

Proprio oggi, mentre guidavo verso il lavoro in una fredda mattina di gennaio, le note di "Lyin' Eyes," "Take It Easy" e "Tequila Sunrise" suonavano alla radio. Come tanti anni fa, ho immaginato Firenze con la cupola del Brunelleschi e il Ponte Vecchio sospeso sull'Arno, come se fossero tranquilli monumenti sotto il sole della California.

Ciao Glenn, e grazie per le emozioni che la tua musica ha portato nella mia vita.

 

lunedì 18 gennaio 2016

CAPOLAVORI: FUTURES(1977) - BURT BACHARACH



Futures è il primo album di Burt Bacharach dopo la fine del rapporto artistico con il paroliere Hal David, (anche se qui sono presenti due brani della premiata ditta) ma è anche il primo disco in cui il compositore americano si lascia indietro i successi che lo avevano caratterizzato nel decennio precedente per giungere ad un nuovo linguaggio, più interiore e più maturo, se mi passate il termine.
Poco conosciuto, Futures è davvero uno sguardo in avanti rispetto all'anno di uscita, si parla del 1977, non orecchiabilissimo ad un primo ascolto, ma se prestiamo l'attenzione che merita, possiamo già da subito riconoscerne quei tratti che saranno poi sviluppati nel decennio successivo nel capolavoro di Carole Bayer Sager "Sometimes Late At Night" per concludersi compiutamente negli anni novanta con "Painted From Memories", un ennesimo capolavoro dove Elvis Costello prende il posto della ex moglie di Bacharach.

La musica di Bacharach, anche quella più riconoscibile e di successo, ha comunque una vena malinconica di fondo, penso a brani come "Alfie" e "A House Is Not A Home", in Futures però si va in direzione della disillusione e dell'introspezione, come se l'artista volesse renderci partecipi del proprio "mal di vivere" raccontandolo in forma di note. Sembra quasi una sfida ai propri fans, una maniera gentile di farsi partecipi di una fase delicata della propria vita ascoltando composizioni facili all'apparenza ma tremendamente complicate nella costruzione e nella metrica.

Ad ogni ascolto ti sorprendono le soluzioni adottate da Bacharach per raccontare il suo mondo: dalla voce soulfoul dolce e arrabbiata di Joshie Armstead nell'iniziale "I Took My Strenght From You" o la strabiliante "Us" sempre con Jo Armstead alla voce, qui ancora più rancorosa, brano questo che anticipa di venti anni davvero le canzoni di "Painted From Memories", bellissimo, che ha la sua continuazione nella successiva "Where Are You", aperto e chiuso da un fenomenale assolo di sax per opera di David Sanborn, quasi come fosse una canzone unica divisa in due parti.
Le strazianti parole di James Kavanough in "We Should Met Sooner" sono giusto mitigate dall'accompagnamento e dalla melodia ideata da Bacharach, dove il bel ritornello è costruito come per dare un briciolo di speranza al testo cantato da Jamie Anders.
"No One Remembers My Name", con il testo di Hal David, sembra invece appartenere al songbook di Carole Bayer Sager e all'album citato all'inizio del post, ma lo precede di quattro anni, e le voci qui impiegate sono quelle delle coriste di Burt: Sally Stevens, Melissa Mackay e Marti Mc Call.
Da segnalare infine due composizioni strumentali che non fanno che confermare la grandezza di Bacharach, la title track "Futures", brano dalle sfumature funk e "Another Spring Will Rise", un capolavoro coronato da un memorabile fraseggio al pianoforte, summa di tutta l'arte del compositore di Kansas City.

Concludendo la recensione, mi sono accorto di avere usato molte iperboli per descrivere "Futures". Poco male, ne sarebbero occorse anche di più, ascoltate il disco e ne converrete anche voi.


lunedì 11 gennaio 2016

IL LUNGO ADDIO: DAVID BOWIE (1947-2016)

Una delle frasi retoriche più insopportabili è quella che recita "lo spettacolo deve continuare " quando in alcuni casi sarebbe cosa buona e giusta fermarsi.

Bene, oggi è una di quelle giornate, come lo fu quella dell'otto Dicembre del 1980; fermarsi come forma di rispetto nel ricordo di David Bowie, e di tutti quei momenti scolpiti nella nostra memoria. Si perché l'artista inglese ha attraversato ogni giorno della nostra esistenza, come un alieno arrivato dalle stelle nel periodo più innovativo e glorioso della storia della musica popolare, e come un demiurgo ha scandito gli stati d'animo di noi nati all'inizio degli anni sessanta e fine cinquanta.

Dall'adolescenza inquieta in cui "Rebel Rebel " era il tuo inno stradaiolo, alle bellissime  suggestioni soul e funk di "Fame" e "Young Americans " a quel qualcosa che avevi dentro e non sapevi tirarlo fuori, salvo trovare le risposte in "Heroes" e in "Ashes to Ashes", fino al canto del cigno di "Let's Dance", inno agli edonistici anni 80 ed ultimo lavoro dove ti potevi immedesimare nell'artista. Una peculiarità questa che non ho ritrovato nei seguenti lavori, un barcamenarsi tra mestiere, voglia di sperimentare cose nuove, ma senza quel qualcosa in più (l'anima forse?) che trovavo sempre e comunque negli album precedenti.

Questo piccolo ricordo di David Bowie voglio che finisca con quella che considero una delle più belle canzoni che siano mai state scritte nella storia della musica, quella "Life on Mars" che prima di una canzone è uno stato dell'anima, anche se non conosci una parola d'inglese.

Questo era il mio David Bowie.

Riposa in pace, e grazie di tutto.

lunedì 4 gennaio 2016

DOWN TWO THAN LEFT (1977) - BOZ SCAGGS



Boz Scaggs, attualmente settantaduenne, è un veterano del blues che continua a registrare dischi senza chiedere di più alla sua illustre carriera. Le sue opere sono sempre eleganti ma possono sfuggire all'attenzione dopo qualche ascolto. Coloro che hanno vissuto gli anni '70 potrebbero faticare a riconoscere l'eroe del nascente movimento musicale californiano che fuse rock, soul e pop. Scaggs ha venduto milioni di copie dei suoi dischi e ha collezionato numerose hits, alcune delle quali sono ancora suonate nelle feste con un tocco di nostalgia.

"Down Two Then Left" è uscito dopo il successo straordinario di "Silk Degrees", un album seminale nel suo genere, e ha visto un cambio di produzione artistica con l'arrivo di Michael Omartian al posto di David Paich. Il risultato è un lavoro più orientato verso il blue-eyed soul rispetto al precedente, anche se manca un successo come "Lowdown". 

Mentre "Hollywood" omaggia la scena disco in chiave funk, è con "A Clue" e "Watcha Gonna Tell Your Man" che il disco raggiunge l'apice, con due autentici capolavori del soul bianco. Nel mezzo, c'è il soul con influenze jazz (o forse dovrei chiamarlo fusion, un termine nobile per chi non si attiene rigidamente al purismo) di "We're Waiting", una bellissima ballad diventata un classico come "Then She Walked Away", con una grande dose di classe. La vivace "1993" ricorda "Lido Shuffle", mentre il blues si fa sentire in modo travolgente nella traccia funky "Gimme The Goods". Jeff Porcaro offre una delle sue migliori performance alla batteria, con il supporto preciso dei migliori musicisti californiani dell'epoca, tra cui Jay Graydon, Ray Parker Jr. e Steve Lukather alle chitarre, Victor Feldman alle tastiere e David Hungate al basso.

È vero che la musica evolve costantemente, e questo è giusto così, ma ascoltando un lavoro come questo, ci si potrebbe augurare di essere intrappolati negli anni '70 per sempre.