mercoledì 31 dicembre 2014

IL 2014, SECONDA PARTE




L'anno che sta per andarsene è stato caratterizzato dalla pubblicazione di numerose ristampe di album che all'epoca della loro prima uscita ebbero scarsa visibilità, se non addirittura bloccati sul nascere da parte delle case discografiche per beghe contrattuali con gli artisti coinvolti. Anno che ha visto molti ritorni eccellenti, con buoni risultati nella maggior parte dei casi. Due artisti in particolare sono stati una vera scoperta: di Robert Lester Folsom trattasi di una conferma dal momento che il disco uscito nel 2014, "Ode To Rainy Day", bissa l'album uscito nel 2010, "Music And Dreams". In questo caso ci troviamo di fronte a registrazioni casalinghe con quasi tutti brani inediti che confermano l'eccellenza di un musicista che solo grazie alla rete è venuto alla luce. Siamo in territorio westcoast e la storia di Lester Folsom assomiglia a quella di altri cantori del genere, in peggio però, visto che il nostro non ha mai avuto alle spalle una major dal momento che il suo unico disco se lo stampò in proprio. Anche per Bob Carpenter, altra grande sorpresa dell'anno il destino non è stato benevolo. Il suo album, "Silent Passage", un gioiellino folk-rock del 1974 non venne mai pubblicato causa screzi con l'etichetta e dopo una prima uscita negli anni ottanta, ben presto dimenticata, ha avuto una riedizione come si deve lo scorso Giugno rendendo giustizia a quello che è uno dei più bei dischi sconosciuti degli anni settanta. Ma di Carpenter e del suo disco ne parlerò presto con un post ad hoc.

I ritorni: di nomi eccellenti e in alcuni casi anche buoni, considerato l'età anagrafica e di militanza sonora. Il più eclatante è stato il riaffacciarsi di Prince con due album; "Art Official Age" quello nel solco della tradizione e "Plectrumelectrum" licenziato insieme a 3D Eyegirl. Il primo è un album che riporta il sound di Prince così come lo abbiamo conosciuto negli anni passati, nessuna sorpresa quindi, ma un solido disco che ha nelle ballad i suoi momenti migliori, con piccole concessioni, come nel brano iniziale, a certo sound tamarrone. Di "Plectrumelectrum" in tutta onestà vi dico che è passato dal mio Ipod solo una volta quindi, come Ponzio Pilato, me ne lavo le mani: non ho gli strumenti per giudicarlo o forse non sono più in sintonia con certe sonorità: chiedo venia. 
Jackson Browne e Cat Stevens (o come si fa chiamare adesso, Yusuf) sono stati altri due inaspettati ritorni, di buon valore "Standing In The Breach", con un Browne ritornato agli antichi splendori, niente di che il disco di Yusuf, mi piaceva il giusto prima, non ho cambiato idea adesso. 

Tra i ritornanti voglio segnalare anche Beck con "Morning Phase" disco incensato da tanti ma che mi ha lasciato indifferente: album che va molto a pescare nel Neil Young acustico di quaranta anni fa, un po' poco per considerarlo un capolavoro. Stesso caso quello di Damien Rice; va bene per chi è a digiuno di certi suoni ma vi garantisco che basta fare opera di ricerca nel passato che si trova di più e di meglio. Ci sarebbe da parlare anche del ritorno dei Pink Floyd, "The Endless River" ma mi è bastata vedere la copertina del disco, sorta di opuscolo in stile Testimoni di Geova,  per decidere di soprassedere all'ascolto.

Per gli amanti dei cofanetti e dei live quest'anno è stato un vero e proprio nirvana: tra i miei preferiti "1974" di CSN&Y, sulla reunion del gruppo documentata con quattro CD live, bellissimo, così come notevole è stata la riedizione dei concerti, tutti, della Allman Brothers Band tenuti al Fillmore East nel 1971 con l'aggiunta delle parti mancanti del disco pubblicato all'epoca, sei cd per ricordare degnamente la band di Jacksonville. Per gli appassionati della westcoast e non solo segnalo un box dedicato a Joni Mitchell"Loves Has Many Faces", 53 canzoni che ripercorrono la carriera della cantante canadese. 

Le dolenti note riguardano, purtroppo, la musica italiana: se escludiamo Paolo Conte, un'altro ritorno, autore di un album, "Snob", che fa strame della produzione musicale del belpaese, per il resto sembra che i media mainstream non abbiano che da parlare di Vasco, Jovanotti, Ligabue, Mengoni, Ferro e compagnia cantante, artisti che per forza di cose ti ritrovi a dover ascoltare senza volere non appena sintonizzi la radio o accendi la tv. Ma scopro l'acqua calda dicendo che la musica in Italia è diventata ostaggio dei talent show, ovvero del niente. Nel poco che ho ascoltato di musica italiana il mio plauso va ad Eugenio Finardi che con "Fibrillante" è stato autore di un disco coraggioso e importante che riflette del periodo di crisi che viviamo in Italia, disco che certi personaggi descritti sopra dovrebbero ascoltare e mandare a memoria, magari perderebbero un po' di quella ignavia che dimostrano di avere. Per le produzioni indie la mia preferenza va al disco di Paolo Apollo Negri, "Hello World", album che ha in certa fusion degli anni 70 la sua ragion d'essere: jazz e rock quindi, suonato con la passione e la devozione che si deve a quel periodo.

Per quest'anno è tutto. Il mio augurio per un sereno 2015 vi raggiunga.


martedì 30 dicembre 2014

IL 2014, PRIMA PARTE.

 





Come altri amici di blog anche io non mi sottrarrò ad un consuntivo di fine anno; musica, visioni e letture. Riguardo alle ultime poco vi dirò, dal momento che ho ridotto drasticamente l'acquisto di carta stampata così come gli ingressi al cinema e il motivo è presto detto: tra bollette da pagare , aumenti di tasse e tassettine, crescita dei figli e cazzi vari, a rimetterci sono state le spese per la cultura, ahimè, ma se per il cinema in un modo o in un altro la soluzione si trova, per i libri, non potendo fare a meno della carta (kobo e kindle per adesso non fanno per me, ma so che capitolerò per forza di cose, come è accaduto per la musica) è stato un dramma, nel senso che ad esclusione del bel libro di Mauro Ronconi, "Hotel California", un compendio indispensabile per sapere tutto sulla musica Westcoast, i pochi acquisti fatti sono di libri editati in edizioni economiche, quindi, cari miei, di quello che è uscito nel 2014 magari ne parlerò in futuro.

Capitolo visioni: poche cose mi hanno entusiasmato questo anno come due serie tv, vera nuova frontiera per evitare storie scontate che sempre più spesso ammorbano il grande schermo e rifuggire dal merchandising più trito. Bene, "Gomorra" e "True Detective" valgono da sole quanto tutte le uscite cinematografiche del 2014, perlomeno di quelle che ho visto. La serie tv italiana dimostra che anche da noi è possibile competere in qualità con le produzioni di oltreoceano, al netto di fiction con suore, preti, carabinieri, mafiosi e annicinquantassessantasettanta. "True Detective" mi ha riportato ai tempi di "Lost" e di "Twin Peaks", sia come importanza della messa in scena che della narrazione sia come attesa spasmodica per le nuove puntate. Una storia "nera" e "appiccicosa", scorretta (qui si fuma, si beve e si scopa) dove non si sconta niente a nessuno, un racconto malato e che ci porta negli abissi dell'animo umano, ben rappresentato e scandagliato dai due protagonisti: un immenso Matthew Mc Conaughey e un altrettanto grande Woody Harrelson.

Musica: una grande annata per le nuove uscite e altrettanto per le ristampe. C'è un album sopra a tutti, come potrete leggere più in basso e una serie di lavori eccellenti, come ad esempio "Going Back Home" grande ritorno di Wilco Johnson insieme a Roger Daltrey. Niente di nuovo, ma una serie di brani del repertorio dei Dr. Feelgood e di altri artisti, per un corroborante r'n'b britannico. Un altro grande ritorno è quello di D'Angelo; l'artista afroamericano dopo un'assenza durata 14 anni, a sorpresa se ne è uscito sul finire dell'anno con "Black Messiah", album dove la parola "neo soul" non è un termine abusato. Funk e soul trattato come neanche Prince (altro ritorno del 2014) con il suo nuovo lavoro è riuscito a fare. Suoni sporchi, una voce che sembra arrivare da altrove, mai così passionale e romantica, ma in una cornice di sonorità non scontate e a tratti dai rimandi psichedelici. 
Restando in ambito soul mi preme segnalare l'album di Emma Donovan & The Putbacks, "Drawn", un gran disco di soul e funk senza aggiunta di fiati, ruvido ed essenziale. Buone anche le prove di Kelis con "Food" e Ledisi con l'r'n'b elegante di "The Truth", meno bene Josè James dove con "While You Were Sleeping" fa un passo indietro rispetto al precedente lavoro, più rock in stile post wave che jazz qui.
Mi sono piaciuti anche Avery Sunshine dove con "The Sunroom" si viaggia in territorio Motown e derivati con incursioni nel soul contemporaneo, e in ambito jazz contaminato vi segnalo l'album di Takuya Kuroda, "Rising Son", un bel disco di post bop, jazz e soul che vanno a braccetto inglobando tutto quello che di nuovo è uscito nel mondo della musica dell'anima. 
In ambito funk la minestra preparata dagli artisti rimane pressoché la stessa; tutti sopra la sufficienza, dai Third Coast King agli The New Mastersound, un ritorno gradito per la Budo's Band e il loro "Burnt Offering", lavoro che ho trovato però un po' monocorde, meglio i Down To The Bone, band inglese capitanata da Stuart Wade e Chris Morgans, l'album "Dig It" è funk che amoreggia con l'acid jazz, un disco molto fresco e  che non annoia.
Uscendo dal soul per entrare nel rock mi sono piaciuti assai i Temples con "Sun Structures", lavoro di pop psichedelico in bilico tra gli Stones di "She's a Rainbow" e i primi Pink Floyd, come molto bello è stato l'album dei The Moons; "Mindwaves" è il pop come dovrebbe essere inteso. In questa categoria ci metto anche Curtis Harding con "Soul Power" che nonostante il titolo spazia nel rock venato di blues, un lavoro al confine con il soul più ruvido, una vera sorpresa.

L'album che però mi ha convinto di più e che tra le novità mi ha veramente emozionato come non mi capitava da tempo è quello di Damon Albarn: "Everyday Robots". Albarn è un musicista che per inciso non avrebbe da dimostrare più niente, visti i capolavori incisi con i mai troppo rimpianti Blur, qui ci porta dentro la sua essenza più vera regalandoci un disco che è al tempo stesso confessione straziante e condivisione del suo essere più intimo. La musica va di pari passo allo spleen che i testi ci raccontano, non più la sfrontatezza del brit pop, ma una sorta di musica dell’anima che però non ha niente a che vedere con il soul così come lo conosciamo: anche per questo motivo ci troviamo davanti ad un opera che va aldilà dei generi e diventa difficile trovare delle assonanze con quanto già ascoltato prima. Musicalmente ci trovo dentro molta Africa, in particolare nel brano omonimo che apre il disco e in “Mr. Tembo”, la canzone più “allegra” dell’album, altrove si spazia da un delicato folk-soul (più di una volta ascoltando le canzoni del disco mi è venuto in mente Terry Calljer come attitudine alla materia) come “Hostiles” e “The History of  a Cheating Heart”, per approdare al gospel del brano finale “Heavy Seas Of Love”. Un viaggio nell’anima dicevamo e anche dentro i demoni personali di Albarn come ci narra in “You and Me”,  il racconto della sua dipendenza con l’eroina. Se la malinconia è il tratto saliente dell’opera e il pop dei tempi ruggenti è ormai un lontano ricordo, qua e là tra i solchi affiora ancora il gusto per la melodia, che Albarn come un vecchio artigiano del pentagramma riesce a incastonare nei ritornelli scarni delle sue canzoni, ascoltate  quelli di “Hostiles”, di “The Selfish Giant” o di “Lonely Press Play” per capire come si può restare al tempo stesso sottotraccia senza rinunciare a quei passaggi che ti si stampano nella memoria senza darti scampo. Un disco immenso, di una modernità assoluta e con le radici negli ultimi cinquanta anni di musica scritta e prodotta. 

Per oggi basta, mi fermo qui, domani farò una panoramica sulle ristampe, a volte sorprendenti, uscite nel 2014, sui ritorni e sulle delusioni 

mercoledì 24 dicembre 2014

BUON NATALE



Un caldo augurio per un Natale sereno a tutti i lettori di DoctorWu. 
Tanta musica e tanto amore.

martedì 23 dicembre 2014

IL LUNGO ADDIO: JOE COCKER 1944 - 2014


Di Joe Cocker ho due ricordi ben precisi:  un vecchio programma Rai della Tv dei Ragazzi, dove "She Came Intro The Bathroom Window" ne era la sigla iniziale, e la cover di "With A Little Help From My Friends" fatta in quel di Woodstock, una tra le migliori versioni di un brano dei Beatles mai ascoltate. Un cantante che verrà ricordato per la particolarità della sua voce, ruvida quando cantava il blues, calda e suadente quando si cimentava con brani di impronta soul. Joe Cocker vanta anche un innumerevole stuolo di imitatori, in particolar modo in Italia, ma è inutile aggiungere che ben pochi sono riusciti anche lontanamente ad avvicinarglisi. Mi piace qui ricordare l'imitazione che ne fece John Belushi nel Saturday Night Live, più vera del vero, al punto che lo stesso Cocker per niente impermalito duettò insieme a John in una puntata del programma. Prevedo che da qualche parte, in qualche luogo, quei due si divertiranno di nuovo insieme, tra sbronze e cazzeggi memorabili.


venerdì 19 dicembre 2014

GODI POPolo - EDWARDS HAND


Tre dischi pubblicati tra il 1969 e il 1971 e poi più niente, se però ci limitassimo a questi sterili dati faremmo un torto ad una band inglese che nel suo piccolo contribuì alla costruzione di quello che nella generazione IPod viene chiamato "baroque pop". Gli Edwards Hand band nata dalle ceneri dei Piccadilly Lane (gruppo con all'attivo un solo disco, "The Huge World of Emily Small", pubblicato nel 1968) era formata da due musicisti inglesi, Rod Edwards e Roger Hand, e vanno ricordati anche per essere stati la prima band prodotta da George Martin dopo lo scioglimento degli The Beatles, collaborando con loro durante le pause della registrazione del White Album.

Il loro primo omonimo album è una mirabile raccolta di canzoni pop (undici brani tutti scritti dal duo, ad eccezione di "If I Thought You'd Ever Change Your Mind" per mano di Joe Cameron) dove è si marcata la produzione di Martin, orchestrazioni e sonorità pastorali senza mai scadere nel kitsch, psichedelia "leggera" in equilibrio tra folk e reminiscenze byrdsiane più marcate nel singolo che ne fu estratto, "Close My Eyes", che fanno ricordare almeno un'altra band che fece del pop uno stato dell'anima prima che delle classifiche, i Nirvana (non quelli di Seattle, specifichiamo).

Un lavoro che aveva tutto per sfondare ma che ebbe la sfortuna di essere pubblicato da un'etichetta americana, la Grt, che non aveva ne i mezzi ne i soldi per promuoverlo, infatti andrà in bancarotta da lì a poco. In pochi si accorsero allora degli Edwards Hand, e sarebbe stato un peccato davvero se il disco in questione fosse restato ad appannaggio di quei pochi possessori del vinile; fortunatamente ci hanno pensato gli inglesi della Lightning Tree Records a ristamparlo nel 2006, con l'aggiunta di quattro brani inediti registrati con solo voce e chitarra. Quale migliore occasione quindi per gustarsi un po' di sana musica pop ?


lunedì 15 dicembre 2014

DOCTOR WU CLASSIC: HOME TO MYSELF - MELISSA MANCHESTER


Uscito nel 1973 il primo album di Melissa Manchester  contiene già i prodromi di quel genere musicale inclassificabile che sta al confine tra rock, jazz, pop e canzone d'autore. In questo caso il disco è si con una marcata impronta cantautorale, nonostante sia prevalentemente un lavoro a due mani, con i testi scritti da Carole Bayer Sager e le musiche composte dalla stessa Manchester ,(esclusi tre brani, questi tutti farina del sacco di Melissa) ma nel suo svolgimento cerca la sponda verso il pubblico che ascoltava prodotti di grana più grossa. Scommessa vinta, perché l'album entrò nella Hot 200 di Billboard, considerando che non è un lavoro di impatto immediato; altra educazione musicale in chi ascoltava verrebbe da pensare, o più semplicemente il buon gusto non era una cosa andata smarrita, basti pensare che cantanti come Carole King, Joni Mitchell e seppur in modo trasversale anche Laura Nyro erano stabilmente nelle prime posizioni delle classifiche di vendita. Dell'album spicca in particolar modo "Easy", brano evocativo e melodrammatico senza cadere nello stucchevole, come pure l'iniziale "If It Fells Good (Let It Ride)" pezzo che trova nel soul e nel gospel la sua ragione d'essere, e molto varie sono anche il resto delle canzoni che nonostante non rientrino in un genere codificato riescono a tenere ben sveglia l'attenzione dell'ascoltatore. Pur non avendo lo spessore dei lavori delle cantautrici succitate, "Home To Myself" è un piccolo scrigno dove sono contenute delle canzoni che il tempo aveva relegato nell'oblio, ma che in virtù della loro bellezza stanno piano piano ritornando alla luce, reclamando quel posto che spetta loro nella storia della musica.

martedì 9 dicembre 2014

LOST AND FOUND: MUSIC AND DREAMS - ROBERT LESTER FOLSOM



Ringrazio i coreani, ringrazio i tipi della "Riverman Music" che nel 2010 hanno ristampato un disco che all'epoca della sua uscita, 1976, ha tirato si e no 600 copie, il tipico caso di un'artista con pochi soldi in tasca e tante idee. Robert Lester Folsom poteva essere un nuovo idolo per chi trovava godimento nell'ascoltare la musica "gentile" che arrivava dalla costa ovest degli Stati Uniti, quella impreziosita dal folk e dal pop sapido in stile Todd Rundgren. Invece, come spesso accade, "Music and Dreams", primo e unico disco di Lester Folsom, rimarrà nell'oblio per quasi 35 anni, prima che qualche illuminato ci facesse dono di si tanta meraviglia. 

Nativo di Lowndes County in Georgia, la storia di Folsom è uguale a quella di tanti musicisti in erba che hanno provato a dare corpo alle proprie passioni cercando di mettere su vinile quello che suonavano nei garage di casa insieme agli amici. Un'educazione musicale ricevuta dai genitori, mezzadri appassionati di country, di soul, di blues e di gospel, con la mamma che cantava da soprano nella chiesa del paese nonché assidui ascoltatori del "Grand Ole Opry" sulla radio di casa. Messa su una band e andato in giro per le radio, feste e case discografiche di zona, Folsom avrà la sua occasione nel 1976 quando giunto ad Atlanta registrerà una demo negli studi LeFevre, che diventeranno poi i brani su cui si baserà il primo ed unico album inciso dal nostro. Seicento copie pubblicate che dettero vita ad un piccolo culto locale intorno al musicista, ben presto finito nel dimenticatoio non avendo alcun tipo di supporto sia da parte dei media che dall'etichetta discografica.

Dopo trenta anni qualcuno ascolterà grazie alla rete una delle canzoni contenute nell'album "Music and Dreams", la bellissima "April Suzanne" e da lì alla ristampa del disco il passo è breve. L'album è una raccolta di canzoni a cui è stato affibbiato il terribile neologismo di "Yacht Rock", termine assurdo per identificare quel genere nato nella westcoast californiana. La copertina del disco può trarre in inganno, dove l'artista è ritratto come un hippie fuori stagione, perché il tratto rilevante dell'album sono una serie di canzoni di taglio pop alla Todd Rundgren, passando per CS&N fino ad arrivare al Neil Young acustico. Brani morbidi ma con una certa inquietudine di fondo; oltre alla citata "April Suzanne" prestate ascolto alla struggente "Show Me To The Window" e a "Please Don't Forget Me". Nel disco c'è spazio anche per dei brani più tirati come "Jericho" e "My Stove's On Fire" canzone questa dalle belle suggestioni soul.

Di Folsom è uscita recentemente una bella raccolta di brani registrati in casa propria negli anni che vanno dal 1972 al 1976, antecedenti a "Music and Dreams", dal titolo "Ode To A Rainy Day", ma di questo avremo modo di riparlarne.

Folsom ha lavorato in un negozio di dischi e adesso fa l'imbianchino. Suona ancora nel tempo libero.


domenica 7 dicembre 2014

UNA CANZONE: VISIONS - STEVIE WONDER


Visions è una piccola perla incastonata in un album di meraviglie quale fu "Innervisions", il disco più bello creato dalla penna di Stevie Wonder. Innervisions uscì nel 1973 ma potrebbe essere uscito ieri: la società occidentale ancora oggi si porta dietro come dei fardelli situazioni mai risolte, dal razzismo, alla povertà, alla diffusione dilagante di sostanze stupefacenti, eroina allora, cocaina adesso. Wonder descrive la società americana di allora come mai nessuno aveva fatto, e se qualcuno avesse conoscenza del cantante afroamericano soltanto per le canzoni più orecchiabili, penserà che si tratti di un'altra persona. Aveva 23 anni quando uscì il disco, e la sfrontatezza di prendere di petto il marcio che girava intorno per costruirci sopra degli inni come "Livin' for the City" e "Higher Ground".

Visions, oggetto del post di oggi, arriva come secondo brano del disco, all'apparenza è come una piccola oasi di serenità all'interno di un lavoro cupo, ma analizzando il testo, che parla di uomini e donne in pace l'uno con l'altro, si scopre che quello narrato da Wonder non sono altro che sogni, delle visioni che una volta terminate ti riportano presto alla cruda realtà. E' nel prosieguio della canzone che Wonder prende coscienza che prima di anelare alla pace universale, l'umanità dovrebbe prima trovare la pace interiore, dando quindi al brano tutto un altro senso e spogliandola da quel pacifismo spicciolo e moralista che cantanti ben più celebrati del nostro ci hanno ammansito per anni e come il panettone a Natale, ritornano annualmente sulle tavole imbandite dell'ascoltatore medio, a ricordarci di quanto dobbiamo essere buoni.

Concludo dicendo che la genialità della scrittura di Wonder in questo album è abbinata alla maestria strumentale, avendo egli stesso suonato tutti gli strumenti che qui ascoltiamo e che se ancora manca un tassello per celebrare questo disco come un capolavoro senza tempo, lo troviamo nella sala di mixaggio, che ha unito il tutto come se al posto del solo Wonder ci fossero stati dei musicisti.

giovedì 4 dicembre 2014

IL LUNGO ADDIO: IAN MC LAGAN 1945 - 2014


Dopo pochi giorni dalla dipartita di Bobby Keys, storico sassofonista ricordato principalmente per aver collaborato con i Rolling Stones, nonché grande amico di Keith Richards, anche un altro grande musicista ci ha lasciato: Ian Mc Lagan, tastierista degli Small Faces e successivamente nei Faces. Apprezzato nel nostro paese da un piccolo ma consistente zoccolo duro di appassionati, ahimè qui la pietra di paragone per i tastieristi era all'epoca Keith Emerson, come se il suonare le tastiere fosse considerato un mestiere da funamboli e circensi. Per fortuna il tempo ha reso giustizia allo stile asciutto e mai ridondante di Mc Laghan, autentica anima soul degli Small Faces. Mi piace ricordarlo con uno dei brani manifesto della band, quella "Tin Soldier" che è la sintesi del suono britannico a cavallo tra il rock intriso di blues e il soul di oltreoceano. In poche parole l'essenza Mod è tutta qui.

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