giovedì 30 aprile 2015

SATURDAY NIGHT SPECIAL - THE LYMAN WOODARD ORGANIZATION


Il genere noto come "lo-fi" mi ha sempre dato l'impressione di essere un'espressione deliberata, scelta più per stile che per necessità reale di risorse, come se fosse un vezzo o una moda. Tuttavia, nel disco che presento oggi, sebbene il suo legame con il rock sia limitato, l'essenza autentica del lo-fi emerge chiaramente. La Lyman Woodard Organization e il loro album "Saturday Night Special" rappresentano una delle produzioni più sincere nell'ambito del funk e oltre. Siamo nel Detroit del 1975, una città già martoriata dalla crisi petrolifera del 1973, e questo album funge quasi da documentario sonoro della vita nei quartieri più disagiati dell'America urbana. Detroit è stata soprannominata "Murder City" o "la città del diavolo," ed è importante notare che Detroit è una metropoli unica, principalmente abitata da afroamericani (nove su dieci degli abitanti) e in cui un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

In questo contesto, Lyman Woodard, un organista jazz che fu uno dei musicisti di sessione più richiesti per le registrazioni Motown e che ha anche svolto il ruolo di direttore artistico per Martha and The Vandellas, offre una rappresentazione cruda e onesta del cosiddetto "ground zero" della società americana. La title track, divisa in due parti, funge da colonna sonora della vita nella "Motor City," dalla fatica che inizia all'alba sulla catena di montaggio all'innocente gioco dei bambini per le strade, affrontando temi come le rapine, la droga, sbirri e puttane. Questo è il funk cinematografico più coinvolgente che potete immaginare, autentico nella sua natura lo-fi, registrato in modo grezzo ma sincero fino al midollo.

Il secondo brano, "Joy Ride," apparentemente rilassato, cattura il suono della città al termine di una giornata di duro lavoro, la colonna sonora per chi torna a casa dopo essersi consumato in fabbrica, con note malinconiche e disincantate, ma straordinariamente belle. Come detto, Lyman Woodard era un eccellente organista, e il resto dell'album conferma la sua maestria. Sebbene meno centrato sul funk urbano, questo secondo lato dell'album è comunque radicato nella musica stradaiola, con ritmi latini che fungono da base per le acrobazie jazz e soul del gruppo, tra cui spicca "Cheeba," un brano suddiviso in due parti con una finale di pura improvvisazione. Non si tratta del tipico latin da salone da ballo; piuttosto, è il ritmo di strada degli immigrati.

Questo album è stato originariamente pubblicato dall'etichetta "Strata" e per molti anni non è stato ristampato. Nel 2009, la Wax Poetics Records ha compiuto un atto meritorio rieditando il disco, ripulendo le tracce dallo "sporco" originale. Tuttavia, mi permetto di suggerirvi caldamente di ascoltarlo nella sua versione originale, quella grezza ma al contempo sincera.


venerdì 24 aprile 2015

GODI POPolo: MARIO ACQUAVIVA


Le reazioni che ho avuto ascoltando "Notturno Italiano" e "Sogni e Ridi" di Mario Acquaviva sono state di sorpresa, meraviglia e rabbia. Intendiamoci, sono per natura un bastian contrario, come ogni toscano che si rispetti, mi piace andare a scovare roba che più snob non si potrebbe, mi piace il pop inteso come arte della canzone orecchiabile ma rifuggo da qualsivoglia ruffianeria che un ritornello può essere in grado di procacciare nell'ascoltatore distratto. Quindi, come vedremo, in "Notturno Italiano" e "Sogni e Ridi" di carne al fuoco ce n'è molta.

La sorpresa: vi confesso che di Mario Acquaviva fino all'altro giorno non sapevo niente e tanto meno mi immaginavo che in Italia, una trentina di anni fa, ci fosse stato un artista che prendendo spunto dal pop impelagato con il jazz (Steely Dan ? Steely Dan!) sia riuscito a creare due capolavori della canzone tricolore e soprattutto che sia riuscito a farseli pubblicare. Che poi non abbia venduto niente avreste potuto scommetterci una bolletta e ahivoi ci avreste vinto poco, dacché certe proposte sono come delle predicazioni nel deserto e facile è indovinare la sorte dei malcapitati che azzardano ad uscire dai canoni della canzonetta da festivalbar. Che poi, lì, al festivalbar, il signor Acquaviva c'è anche andato, nel 1983, ma probabilmente in quel contesto è passato più inosservato di un gatto nero nella notte. 

La meraviglia: due album, come dicevamo, che come minimo andrebbero ascoltati allo sfinimento per capire quanto geniale e preziosa sia stata la maestria musicale di Acquaviva. Il primo lavoro, "Notturno Italiano" edito nel 1983 in formato di E.P. dice già tutto del nostro e ne faceva presagire mirabilie in futuro, se soltanto fossimo stati in un paese più ricettivo a queste sonorità. Sin dalla title track, un superbo esempio di pop jazz e funk suonato come meglio non si potrebbe (e qui il plauso va ai turnisti che vi parteciparono, tra cui Faso e il povero Feiez, in futuro con Elio e Le Storie Tese) poi lasciatemi dire che questo disco suona BENE; dico, l'avete presente il piattume dei dischi registrati in Italia? Bene, qui sembra davvero di stare in uno studio di Los Angeles, dove niente viene lasciato al caso, e il risultato è quello di avere per le mani un pezzo unico, paragonabile in Italia ai dischi registrati negli studi della Numero Uno, l'etichetta di Battisti. 

Ci vorranno quattro anni, 1987, affinché Acquaviva riesca a realizzare il secondo album, "Sogni e Ridi" e qui le intuizioni del primo lavoro saranno sviluppate in maniera compiuta, lavorando di sintesi ma sempre nel solco del pop dagli afrori jazzati. 
Ma voi pensavate davvero che la maggioranza degli ascoltatori italiani fossero pronti per i cambi armonici, i ritmi spezzati, i ritornelli mancanti (possiamo azzardare che Acquaviva abbia evoluto il suono del Neapolitan Power) ? 
Sventurato paese il nostro, avere un artista che era quanto di più vicino all'arte di Donald Fagen e aver voltato la testa.

Di Acquaviva trovate poco o niente in rete, anzi, se qualcuno ne sa qualcosa di più è il benvenuto (ho visto che su ebay sono in vendita un Lp "Ballabile" uscito nel 1980 a nome Mario Acquaviva e probabilmente è lo stesso artista componente della band prog degli anni 70 "Quarto Stato". 




venerdì 17 aprile 2015

LOST AND FOUND: CHAPTER ONE - BLO


Quando pensi alla musica africana la prima cosa che ti viene in mente sono quegli artisti che usano fondere i suoni tradizionali con gli strumenti elettrici occidentali, e anche non puoi fare a meno di ricordare il grande Fela Kuti o gli Osibisa. Un altra cosa certa è che quando pensi alle band africane te le immagini e te le ricordi con almeno minimo dieci elementi al loro interno, tra strumenti tradizionali, fiati e quant'altro.

I Blo invece erano tre ragazzi nigeriani, il nome della band è l'acronimo dei loro nomi di battesimo, Berkley, Lalou, Odumosu, chitarra, batteria, basso e chiusa lì. Come altri ragazzi di altri paesi i nostri tre eroi hanno iniziato ai tempi della scuola a trastullarsi con gli strumenti; a quell'epoca avevano un altro nome, The Clusters, e suonavano altre cose, quelle che tutti conosciamo: qualcosa dei Beatles, un po' di r'n'b, Elvis, rumba e cha cha cha, ovvero tutto quanto facesse muover le chiappe nelle feste studentesche. Quindi molta musica occidentale e poca Africa ma la svolta per i nostri avvenne quando Ginger Baker, lo storico batterista dei Cream, durante uno dei suoi tre viaggi in quel di Lagos all'inizio degli anni settanta, li volle con se in tour per l'Europa e negli States dove i tre futuri Blo avranno modo di capire quale direzione dare alla loro musica. Ritornati in Nigeria a fine 1972 la prima cosa che decisero fu quella di salutare Baker e di formare una nuova entità, lasciando ai ricordi The Clusters e divenendo semplicemente Blo.

La musica appunto: spazio ad un suono che dall'esperienza fatta in occidente se ne ritornava nella terra madre africana e ne inglobava la ritmica nella parte del basso, mentre chitarra e batteria se la giocavano con la psichedelia innerbata da massicce dosi di Funk. Il loro primo album, "Chapter One" registrato a Lagos, è un iperbolico esempio di tutte queste componenti messe insieme ed è oggi stesso una piacevole sorpresa rimasta nascosta per troppo tempo.
Beat funk, rock e psichedelia, dicevamo, e sullo sfondo quel basso pulsante che ricorda il ritmo dei padri: raramente ho ascoltato un ensemble così ben amalgamato ed un disco i cui brani sono così convincenti.
Perso nei meandri della storia e nelle bancarelle dei collezionisti, "Chapter One" è stato provvidenzialmente ristampato nel 2013 dall'etichetta Mr. Bongo, quindi non avete più scuse per fare orecchie da mercante.

Buon Ascolto.
 

domenica 12 aprile 2015

UNA CANZONE: THE NIGHT - FRANKIE VALLI



Bisogna esser grati ai Dj's della scena Northern Soul, che una canzone così se non era per loro non se la sarebbe filata nessuno; non se l'è filata nemmeno il buon Clint Eastwood che manco l'ha inserita per qualche secondo nel film che ricorda l'epopea dei "Jersey Boys", ovvero degli The Four Seasons. Uno dei motivi può essere che per gli americani la parola Northern Soul non significa niente o forse perché la canzone non ebbe successo negli States, e alla prima uscita, nel 1972 ebbe poco riscontro anche dall'altra parte dell'oceano salvo ritornare in un altra veste nel 1975, grazie alle nottate spese nel ballo e nel sudore di chi bazzicava il Wigan Casino o il Blackpool Mecca, anno in cui "The Night" riuscì ad arrivare al settimo posto delle charts inglesi.

Dici "The Night", la notte, e magari ti viene in mente il bel brano dell'italo belga Adamo, e sai poco o niente di Frankie Valli, anzi Francis Castelluccio, guarda un po' un altro con sangue italiano nelle vene; si, magari lo conosci per "Grease" e "Can't Take My Eyes Off Of You", mica poco, ma quando avrai ascoltato le prime note di "The Night", con quel suo riff di basso doppiato da un organo che sembra arrivare dalla navata di una chiesa gotica, e poi le parole: "Beware, of his promise, Believe what i say, Before I go forever, Be sure of what you say... "But The Night begins to turn your head around..."  saprai che di Frankie Valli potrai dire di aver ascoltato tutto e nient'altro vorrai ascoltare.

La notte che ti consumi davanti ad un bicchiere di alcool, piena di promesse si, ma false. La notte puttana, la notte passata a lavorare a bestemmiare a non dormire. C'è tutto in questa canzone, anche se non capisci un cazzo di inglese te la puoi far diventare tua, come una colonna sonora delle tue notti bastarde.
Canzoni come queste sono come le pietre lavorate dagli scalpellini del rinascimento, ci cammini sopra e non ti fermi mai ad ammirarne la bellezza e la precisione, quando lo fai, vorresti quelle pietre ovunque.

Del brano ne sono state fatte delle cover, da parte di artisti inglesi, of course, ma non riescono ad eguagliare la bellezza dell'originale, anche se, ad onor del vero, rimarcano la drammaticità insita nel pezzo.

KTF




venerdì 3 aprile 2015

FUNKY STUFF: OWED TO MYSELF - CHARLES HILTON BROWN



Hanno un bel coraggio a dire che la musica è liquida: che cazzo vuol dire ? Da un dizionario: dicasi liquido la condizione di un corpo che, per scarsa aggregazione molecolare, possiede volume proprio ma assume la forma del recipiente in cui si trova. Per adesso non ho visto le canzoni dentro il mio IPod assumerne la forma o diventare come il whisky o il vino, e per fortuna, se non fosse per le vecchie copertine in cartone dei dischi, manco avrei un indizio su quello che mi capiterebbe di ascoltare. Che poi alcune copertine sembrano fatte apposta per farsi trovare: prendi ad esempio quella protagonista del post di oggi, sembra cucita addosso alla mia pellaccia di adoratore del funk. 

Non solo; "Owed to Myself" di Charles Hilton Brown è uno di quei dischi per cui gli Indiana Jones del vinile se lo inventerebbero. Ma prima è doverosa una premessa: l'artista del post di oggi non arriva dal niente ma durante l'epoca d'oro del beat italiano era un componente del gruppo vocale dei Four Kents, quattro soldati americani di stanza in Italia che negli anni sessanta allietarono le notti dei ballerini del Piper di Roma e di Viareggio. Quindi di materia solida, fatta di sudore e note ce n'era in abbondanza per Charles Hilton Brown quando, uscito dal gruppo, entrò in studio, qui in Italia è bene rimarcarlo, per incidere quello che rimane la sua unica prova in formato lungo da solista (al suo attivo ha anche un 45 giri, "Mamma Rosa" del 1970) e al tempo stesso uno dei dischi rimasti introvabili per lungo tempo. 

"Owed to Myself" uscì nel 1974 per l'etichetta Ampex ed è stato ripubblicato nel 2000 in CD dalla benemerita Schema Records. Aldilà delle fisime da collezionista il contenuto dell'album è un miracolo di groove e funk, dove il nostro ben coadiuvato dalla band britannica degli Assagai, sciorina otto brani che vanno dalle cover di "Soul Train", "Ain't No Sunshine" e "Try A Little Tenderness", rielaborate con onestà ma senza sorprese ai rimanenti cinque pezzi originali questi si davvero fonte di goduria. Tre in particolare sono i miei preferiti: "I'm Coming Home" apre le porte al groove di reminiscenza Stonesiana, si gira intorno alle simpatie per il diavolo per intendersi, ma sono i due brani strumentali "Maddox" e "G.R.F" a dare corpo e volume al lavoro. Brani trasudanti groove e funk in ogni nota, ci trovi dentro il suono dei ghetti e tanta Africa qui, poi arriva il gran finale con "Arguments", pezzo funk con in mezzo una tromba jazz tra suggestioni afro. Credetemi quando vi dico che questo disco è come una comunione con il funk ed il soul, e non si tratta di musica liquida in nessun caso: questa è solida come la roccia e occhio che non spacchi il vostro lettore Mp3.

Un grazie a "beatsessanta.it" per le info riguardanti The Four Kents.




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