domenica 29 marzo 2015

IL LUNGO ADDIO: SHARON TANDY (1943-2015)



Antefatto: ho appreso con rammarico dall'amico Tarkus della recente scomparsa di Sharon Tandy, interprete di origine sudafricana non molto conosciuta a queste latitudini ma molto apprezzata nel giro Mod. Lo scorso maggio sul mio vecchio blog postai un articolo sulla cantante dal titolo "Sharon Nel Paese Dei Balocchi" che vorrei riproporre oggi, in forma riveduta e corretta.

Questa storia assomiglia ad una fiaba, la protagonista è una timida ragazza sudafricana innamorata della musica. E come in tutte le fiabe che si rispettano la ragazza si innamora di un principe, anche lui sudafricano, trasferitosi dal 1958 in Gran Bretagna, e che costui, diversamente dalle fiabe, non cavalcava destrieri ma bensì la divisione UK della Atlantic Records. Frank Fenter, questo il nome del principe (passerà alla storia come il manager che metterà sotto contratto band come Led Zeppelin, Yes e King Crimson) di ritorno nel paese natìo e conosciuta la nostra “cenerentola” cosa fa? Dice alla ragazza: “ Bella mia,  ho ascoltato come canti e mi piaci. Vorrei portarti con me, lontano da qui, in una città dove non si dorme mai e la vita è più facile”. La risposta della nostra protagonista la potete facilmente immaginare.

Quindi è deciso, i due come dei promessi sposi prendono il primo volo e se ne vanno, destinazione Londra, si ma la  Londra del 1964, ovvero, per una ragazza che sapeva cantare e amava la musica, nientemeno come essere nel paese dei balocchi. Arrivati colà il nostro Frank prima se la sposa e poi decide di avviarne la carriera; ah, non vi ho ancora detto come si chiama la fanciulla: Sharon Tandy. Non vi dice niente eh…

Insomma Sharon, grazie ai buoni uffici di suo marito inizia con il piede giusto e cavoli, con un capo della Atlantic avrei voluto vedere; ma nonostante la sua bella voce, un misto di Dusty Springfield e Sandy Shaw, la carriera non decolla: ne con il pop alla Walker Brothers, né con la soul music; e pensare che il maritino la portò ad incidere a Memphis, negli studi della Stax, prima cantante bianca ad avere avuto questo onore, e trovarsi in studio insieme a personaggi quali Donald “Duck” Dunn, Steve Cropper, Booker T. ed Isaac Hayes; niente male eh, per una semi sconosciuta. Siamo a fine 1966, ma di Sharon Tandy il pubblico di allora che comprava i 45 giri come il pane, come per un sorta di maleficio, non si accorge di lei.

Millenovecentosessantasette: Frank Fenter decide che è giunto il momento di provarci con il rock, si, però quello psichedelico, che era in voga allora: prende una sua band, i Fleur De Lys e decide che la voce del gruppo debba essere quella di Sharon. Il risultato sarà quello di averci regalato una delle commistioni più riuscite tra sonorità elettriche per voce femminile, solo che, anche questa volta, sono in pochi ad accorgersene, salvo in Germania, dove “Hold On” il primo singolo inciso dalle due entità avrà un discreto successo. Arrivati a questo punto è lecito porsi alcune domande; come è possibile che una ragazza dalla bella voce e dalla bella presenza, capace di cantare il soul, il pop, il rock, sposata con un boss della Atlantic non sia riuscita ad ottenere il successo che meritava? Disillusa e disamorata, Sharon, nel 1970 decide di mollare la Londra luccicante di quegli anni e in una sorta di incantesimo all’incontrario, riprende l’aereo e se ne ritorna in Sud Africa, da sola. Lì avrà qualche hit, ma durerà poco, volete mettere Johannesburg con la capitale della musica? Quel che è certo è che questa storia, senza lieto fine, ci ha lasciato comunque della buona musica da ascoltare e sono certo che una nuova  chance a Sharon Tandy gliela concederete, e magari forse ve ne innamorerete voi questa volta.

Di seguito tre video che descrivono bene lo stile di Sharon Tandy: il freakbeat di "Hold On", il soul versione Stax di "One Way Street" e il sixties pop di "You Got To Believe It".




venerdì 27 marzo 2015

NOVITA' - SILK RHODES



Come D'Angelo anche i Silk Rhodes (un duo, il produttore Michael Collins e il vocalist Sasha Desree) hanno messo il sigillo al 2014; il loro omonimo disco è infatti uscito per l'etichetta Stones Throw il 15 Dicembre, e al pari del genio di Richmond ci troviamo davanti ad uno dei migliori dischi di soul funk usciti recentemente. Pescano a piene mani nel soul del passato i Silk Rhodes, anni 70 riciclati in poco più di mezzora, canzoni appena abbozzate che solo in pochi casi superano i tre minuti di durata, quasi come se fossero degli schizzi lasciati a bella posta per essere finiti nell'immaginario di chi li ascolta; questo è l'effetto che danno, dapprima il sentimento provato è quasi di fastidio per quei brani appena accennati, successivamente il fastidio è sostituito dal piacere nel ricominciare ad ascoltare di nuovo per poterne cogliere tutte le sfumature.

Se al primo ascolto i riferimenti che ti sovvengono sono quelli di Sly Stone e di Isaac Hayes, successivamente capisci bene che il duo ha ben chiaro su come e dove andare a parare e in questo caso un indizio unisce tutte le canzoni dell'album: le ballad. Che di ballate il soul ne ha prodotte in quantità industriali e sono forse quelle più amate e ricordate, quindi in un intruglio di sensualità e lussuria sonora ci buttiamo a capofitto dentro le note di "Pains", una meraviglia che mette dentro Prince e i Portishead, il quale ritorna (Prince) nelle note mid tempo di "Realtime", ma non sazi ci rituffiamo dentro le ballad e qui si schiudono infiniti piaceri con "Barely New", e poi ancora corpi aggrovigliati con "This Painted World" e "Group 1987" per finire in vampate di piacere con "Hold Me Down" e tu ripensi a tutti quei gruppi vocali e a quei cantanti dalla pelle nera stretti nei loro completi di velluto e camicie con le balze che ti sussurravano inutilmente, perché eri preso da quattro cazzari che ti dicevano che non potevano esistere neri che sorridevano e che la musica o era impegnata o non lo era, e tu allora li ascoltavi di nascosto e niente dicevi ai tuoi amici.

Fortunatamente i nostri amici cazzari li abbiamo riposti in una cassapanca e il tempo, galantuomo di per se, ha reso giustizia a quei dispensatori di piaceri incoffessabili anche grazie a un duo quali sono i Silk Rhodes che molto bene hanno appreso la lezione e sono certo che ne trarrete beneficio ancora oggi.

Uno dei dischi dell'anno, giusto un gradino sotto a "Black Messiah".

mercoledì 25 marzo 2015

CLASSICI: VOCAZIONE - ENZO CARELLA



L'altro giorno, mentre stavo leggendo una discussione su Facebook, mi ha colpito il commento di un utente il quale affermava che in Italia a livello di musica pop siamo tornati indietro agli anni 50, ovvero"siamo tornati all'epoca di Pat Boone". L'affermazione è da sottoscrivere in quanto, ora come allora, le classifiche di vendita sono piene di cantanti innocui che raccontano di angosce sentimentali, apprezzati e approvati dai genitori e dai nonni (ahi) e quindi ritenuti adatti per la loro giovane prole (si parla di adolescenti). Insomma di artisti che del pop ne fanno uno stato dell'arte o provano a dire qualcosa di originale almeno per adesso qui in Italia sembra che non ci sia niente in vista (non mi vorrete mica spacciare per nuovi Dente e compagnia, vero?) e tanto meno di apprezzabile per le mie trombe di eustachio, quindi spero che mi scuserete se per l'ennesima volta devo andare indietro nel tempo per cercare un esempio di quello che era la ricerca artistica applicata alla canzone così detta "leggera".

Oggi parleremo di un disco uscito nel 1977 ad opera di un musicista romano le cui gesta hanno un che di epopea leggendaria: si perché quando si parla di Enzo Carella ci troviamo di fronte all'epica di un certo tipo di canzone d'autore italiana, in questo caso di quella più immaginifica, quasi come fosse essa stessa inesistente o forse soltanto perché troppo in anticipo sui tempi. Carella quindi e "Vocazione" il disco in oggetto, o del trasformare in opera d'arte otto canzoni scritte in collaborazione con un altro personaggio che sembra uscito da un quadro di Magritte: Pasquale Panella.

Il surrealismo in parole che incontra la musica: ben prima di averci donato i capolavori realizzati insieme a Lucio Battisti, Panella entrò come una novità assoluta nel mondo della musica leggera italiana proprio con questo album che a distanza di anni suona ancora moderno e rimanda al discorso che facevamo all'inizio: non un arruffianamento verso il pubblico ma una sana voglia di tirar dritto e di rivoltare come un calzino quello che era la musica di consumo di allora.

La title track di per se basterebbe per gridare al miracolo: ci troviamo di fronte ad un testo sonoro che si nutre di musica nera e rock cucito sopra le parole di Panella e impreziosito dal lavoro magistrale di Fabio Pignatelli dei Goblin al basso.
Ma il disco contiene altre perle, due su tutte: "Fosse Vero" e "Malamore", due canzoni dove  la ricerca sonora va di pari passo ai calembour lessicali dei testi di Panella, un intrigante e incisivo sound permeato dal funk americano all'interno della melodia italiana, si da far tesoro della lezione di Lucio Battisti. Altre suggestioni possiamo trovare nell'album, come ad esempio la fascinazione per le sonorità americane in quota Steely Dan e comunque in tutto il lavoro si respira un'aria che rifugge dai soliti luoghi comuni di cui era intrisa la musica leggera italiana degli anni 70.
"Vocazione" è stato e rimane uno degli album più belli e più importanti della musica pop italiana, anzi, della musica italiana tout court, sparito dalla circolazione troppo presto (non è stato ristampato in cd) ma che ad ogni nuovo ascolto accresce la meraviglia e lo stupore per si tanta bellezza.


lunedì 16 marzo 2015

IL LUNGO ADDIO: MIKE PORCARO 1955 - 2015


Mike Porcaro è stato il bassista della band dei Toto, subentrato a David Hungate nel 1982, e secondo dei tre fratelli Porcaro, Jeff e Steve anche loro nella band. Detto che i Toto sono da sempre una delle band (insieme agli Eagles) che gli appassionati di rock amano sbeffeggiare (diciamolo senza perifrasi, li prendono bellamente per il culo, quando non vengono proprio odiati a prescindere) è giusto ricordare che i Toto con il rock inteso come genere hanno poco o niente a che fare, essendo riusciti a creare uno stile che lo comprendeva, insieme al pop sofisticato, al soul e all'r'n'b. I Toto sono stati autori di alcune tra le più belle ballate di pop raffinato e tanto mi basta. Come ad esempio "I'll Be Over You", tratta dall'album "Farenheit" del 1986, canzone che vede ai cori Michael Mc Donald e il povero Mike Porcaro al basso. Mike Porcaro, così come gli altri componenti della band, sono stati descritti come "i migliori musicisti del pianeta" e non a caso, la loro tecnica strumentale ha contribuito a rendere peculiare i lavori di numerosi artisti, tra cui mi piace citare gli Steely Dan, Boz Scaggs nonché i numerosi e misconosciuti eroi del sound californiano.

venerdì 13 marzo 2015

NOVITA': TUXEDO


Ne avete abbastanza degli anni settanta? Non ne potete più delle feste a tema disco music con i soliti tre brani tre sparati dal dj di turno? I pantaloni a zampa di elefante e le acconciature afro vi fanno venire la pellagra? Le band di retro soul vi sembra che suonino tutte allo stesso modo ? Se le risposte sono affermative, allora siete pronti per un altro giro nella giostra del revival, andando avanti di un decennio, anni ottanta si, ma nei suoi primi vagiti.
Chissà se anche Mayer Hawthorne e Jake One hanno avuto un rigurgito da Studio 54 al momento di mettere in piedi il progetto Tuxedo.

La collaborazione tra i due artisti ha inizio nel 2006, come scambio di mixtapes, e tre brani usciti nel 2013 con un certo alone di mistero soltanto in download. Da questo siamo passati poi ad un intero album a nome Tuxedo uscito nel giorno del mio compleanno, lo scorso 3 marzo.
Come detto, i due artisti si sono focalizzati sulla disco funk dei primi anni ottanta, quindi fuori le zeppe e le camicie e i petti villosi e dentro le giacche a reverse stretto, i top, e le scarpe stringate, fuori i Village People e dentro gli Shalamar. Non solo: chi è avvezzo al genere si divertirà a trovare le assonanze con il meglio che girava  in quel periodo, mi vengono in mente i Dayton, gli Zapp, gli Chic post Le Freak, al punto che l'album suona davvero come se fosse uscito nel 1982, e ciò va a merito del duo, che ha colto l'essenza della disco funk asciutta e urgente (fuori l'orchestra e i fiati e dentro i synth) senza i barocchismi decadenti degli ultimi vagiti disco.

A tratti Mayer Hawthorne tira fuori il meglio di se, che consiste nell'essere il più credibile interprete di blue eyed soul degli anni 10, e ci regala due perle, "Two Wrongs" e "Get U Home" due ballad mid tempo in stile Hall & Oates che vanno ad impreziosire un disco senza punti deboli e consigliato davvero anche a chi del genere ne è a digiuno. Poco altro da dire, sparatevelo in cuffia e suonatelo ai parties, farete un figurone e passerete da persone che hanno gusto e stile.



martedì 10 marzo 2015

CLASSICI: GET THE KNACK - THE KNACK (1979)



Quando nel 1979 uscì "Get The Knack" il sottoscritto era impaniato "anema e core" con la musica dei Beatles e affini, capirete quindi che il disco dei The Knack fu come acqua fresca, e il power pop che sgorgava da quei solchi era la definitiva pietra tombale sul progressive (in particolare su quello che girava a fine anni settanta, uno smartellamento onanistico e tedioso) che aveva già avuto dal punk una bella mazzata. A differenza di quest'ultimo con il power pop sembrava davvero di essere tornati all'epoca delle canzoni da turbe adolescenziali, micidiali ritornelli e melodie semplici corroborate da un sound chitarristico preciso e potente, con il minimo sindacale di assoli, e con la certezza di ascoltare canzoni che non se la tiravano troppo.

Ma non è questo il post per fare un'esegesi del power pop, quindi ritorniamo a "Get The Knack". Moltissime le analogie con i primi album dei quattro di Liverpool, dalla copertina ispirata al primo album pubblicato negli States "Meet The Beatles", al vestirsi tutti alla stessa maniera (nei concerti i quattro vestivano con camicia bianca, cravatta nera stretta, pantalone nero) al logo della Capitol che riprendeva quello degli anni sessanta, fino alla registrazione dell'album, in pratica quasi live, e nella tempistica della registrazione, due settimane, e nei costi, solo 18mila dollari.

L'album si apre con un trittico micidiale: si parte con  "Let Me Out" e anche qui le analogie con il primo brano del primo album dei Beatles (questa volta però dell'uscita UK) sono evidenti: come "I Saw At Standing There" apriva "Please, Please Me" anche il via a "Get The Knack" è dato dal "one two three four" del cantante per poi esplodere in un rock'roll catartico: l'effetto fu quello di un calcio nelle palle ai barbogi di tutte le età.  "Your Number Or Your Name" è il Mersey sound aggiornato alla fine dei seventies, "Oh Tara" è una meraviglia in cui si incastona il pop di kinksiana memoria. Con "(She's So) Selfish" viene riscoperto e omaggiato il sound a la Bo Diddley, mentre "Maybe Tonight" è una ballad che concorre in bellezza (senza superarla in questo caso) con un'altra canzone di quel periodo: "Party Girl" di Elvis Costello. La conclusione della prima facciata è l'adrenalinica "Good Girls Don't", ritorniamo al r'n'r che apre l'album con parti di armonica che ricordano il primo John Lennon.

"My Sharona" apre la seconda facciata e qui ogni commento è superfluo: una canzone che conoscono anche i sassi, disco da milioni di copie vendute, e l'unico vero successo del power pop. Il brano seguente, "Heartbeat", è una riuscita cover di una vecchia canzone di Buddy Holly, un aggancio, se così si puo dire, al padrino del power pop. "Siamese Twins" altro bel pezzo r'n'r ci introduce ad altre due perle del disco: la sognante "Lucinda" e la bellissima "That's What The Little Girls Do" e qui i paragoni si sprecano. Non solo Beatles, qui The Knack si fanno epigoni degli Hollies e financo dei Beach Boys, armonie vocali e chitarre cristalline come se piovesse. Il gran finale è affidato a "Frustrated", brano dal massiccio riff chitarristico e dal grandioso lavoro alla batteria di Bruce Gary.

Come spesso accade il successo inatteso della band di Doug Fieger creò invidia e incazzature assortite da parte della stampa specializzata americana nonché degli addetti ai lavori. La band a causa dei testi fu accusata di misoginia, arroganza (forse perché non concedevano interviste)  e di essere dei novelli Monkees, costruiti ad arte dall'industria discografica. Cazzi loro, verrebbe da dire, che di infausti censori e minchioni il mondo della critica musicale ne era pieno anche allora, gente che si attacca al nulla, rosa dall'invidia per come una band con molta energia e poche seghe mentali riuscì a creare e a vendere un'idea che partiva da lontano e che fu attualizzata alla bisogna. Poco male, ad oggi The Knack sono ancora ricordati ed amati, di quegli scribacchini invece se ne è persa ogni traccia.

The Knack original line-up

Doug Fieger     Voce e Chitarra Ritmica (n1952-m2010)
Berton Averre   Chitarra Solista
Prescott Niles   Basso
Bruce Gary       Batteria (n1951-m2006)



lunedì 2 marzo 2015

CLASSICI: STRANGE KIND OF LOVE - LOVE AND MONEY (1988)



Infausto sia chi ha coniato il termine easy listening, e sciagurati siano quelli che si attaccano ai pregiudizi che può evocare l'espressione (ci mettiamo anche il pop qui dentro, ma si dai) come scusante per evitare di ascoltare quegli artisti e quei dischi che potrebbero regalar loro anche solo per un breve attimo una piccola emozione. E maledetta sia la preclusione che si ha di fronte a determinati musicisti, in questo caso l'imputato è Jeff Porcaro, che si, bravo tecnicamente, ma freddo, brrrr, vuoi mettere con chi sa a malapena tenere in mano due bacchette. Sembra di sentirli: il non saper suonare a volte può essere un pregio. Si, forse lo sarà per alcuni, non per me, fermamente convinto da sempre che la forma e l'estetica sonora vadano a braccetto con la creatività: volete un altro nome ? Gino Vannelli !

Oppure portiamo ad esempio un disco del 1988, dove Porcaro suona in tutti i brani di una band scozzese e come un metronomo ne scandisce ogni singola canzone rendendola unica. Metti anche un produttore, Gary Katz, che ha curato la regia dell'album in questione; beh magari anche per lui c'è l'accusa di aver prodotto gli album di una band che faceva dello stile e della padronanza tecnica la propria cifra (si, si, sono gli Steely Dan e allora?) ma come Porcaro detta la linea e da corpo ai desiderata del gruppo.
Una band di ragazzi scozzesi dicevamo; pare strano che nella metà degli anni ottanta da quelle parti ci sia stato un innamoramento repentino per la musica della ditta Fagen & Becker, come se dopo la pubblicazione di Gaucho abbiano sentito il dovere di riannodare il filo di quella musica fatta di precisione e passione, e che nella ribongia (per i non toscani: la ribongia è un miscuglio di cibi avanzati riutilizzati per creare un piatto unico) di stili degli anni ottanta sembrava irrimediabilmente andata perduta.

Metti appunto i Love and Money di James Grant, cantore di quella piccola stagione che fu fonte di acqua fresca per tutti i vedovi degli Steely Dan (in questo caso preciso siamo dalle parti di The Royal Scam) e metti pure "Strange Kind Of Love" album che come minimo andrebbe rivalutato per tutte quelle canzoni (ad esempio e per sintetizzare: "Jocelyn Square", la title track, bellissima, e il singolo che ne fu tratto "Hallelujah Man") che il tempo piano piano tenta di cancellare ma che grazie alla cocciutaggine e al martellamento di chi come il sottoscritto di quei suoni si è cibato e se ne ciba ancora, saranno sempre presenti e attuali e verranno a mettervi il dubbio che forse l'easy listening non esista davvero, ma che è soltanto alimento per gli sciocchi o per chi vuole liquidare con noncuranza ciò che non è scritto nei testi di storia ufficiali.